CANONE  E  STORIA  DEL  TESTO  BIBLICO

Questa  lezione  è  stata  curata  dal  Prof. D'Alessio  don  Davide  (docente  di  teologia  fondamentale  presso  il  Seminario  Arcivescovile  di  Milano)

 

Tra tutti i documenti che testimoniano la fede della Chiesa, la Bibbia riveste per il credente un'autorità senza pari. Per esprimere l'autorità che la Bibbia riveste sia per la fede del singolo credente che per quella della Chiesa la teologia utilizza un termine preciso: canonicità. I1 termine deriva dal greco kanon e dall'ebraico qaneh e significa: "canna". La canna era utilizzata per misurare, dunque esprimeva la regola seguita per giudicare, per valutare. Significativamente Paolo utilizza il termine nella lettera ai Galati quando, parlando della croce di Cristo, scrive: "E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l'Israele di Dio" (Gal 6,16). La croce di Cristo, cuore dell'evento cristologico, rappresenta la regola, il canone della fede cristiana. Ora, definendo la Bibbia il canone della fede cristiana intendiamo dire che essa è la regola della fede ciò su cui misurare la fede.

La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. (DV 21) Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio... (DV 24)

Ma come si è giunti a riconoscere il canone? Come lo si deve interpretare? E qual è la motivazione della sua canonicità? Rispondere a queste domande significa affrontare tre problemi:

1. il problema del canone, ovvero: il problema della definizione dei testi canonici;

2. il problema dell'ispirazione, ovvero il problema del fondamento della canonicità;

3. il problema ermeneutico, ovvero: il problema della modalità con cui accostare il canone per coglierne il messaggio.

Ci soffermiamo sulla prima di queste questioni e svolgiamo una riflessione in due momenti: consideriamo innanzitutto la definizione del canone, quindi il suo significato. Tra i due poniamo un intermezzo sul significato del testo biblico in quanto testo, ovvero sul gioco strutturale che nasce tra un lettore e il testo. Questa digressione ci consentirà di comprendere meglio il significato del canone.

 

1. La Bibbia, canone della fede

1.1 La definizione di Trento

La definizione dogmatica del canone è avvenuta nel concilio di Trento nel decreto "sui libri sacri e sulle tradizioni da accogliere" (1546). Il testo che risulta canonico consta di due parti: recepisce il canone veterotestamentario (prima parte) a cui aggiunge gli scritti neotestamentari (seconda Parte). Il canone giudaico consta, com'è noto, di tre gruppi di scritti: la legge i profeti e gli altri scritti. La tradizione cristiana riceve l'AT dagli apostoli e questi da Gesù e attraverso Gesù dunque riconosce all'AT quella canonicità che Gesù stesso vi ha riconosciuto. Il canone neotestamentario si compone di tre gruppi di testi: i vangeli, il corpo paolino e gli alti scritti. La presenza dei quattro vangeli è testimoniata già nel II secolo: Giustino conosce una pluralità di "memorie degli apostoli", Ireneo sviluppa riflessioni sul numero quattro, paragonandolo ai quattro venti o ai quattro punti cardinali... Accanto ai vangeli dobbiamo riconoscere un secondo gruppo di testi canonici neotestamentari: le lettere di Paolo. Si tratta di un corpo di lettere già noto a Pietro, forse attorno al 120 d.C.; che Pietro equipara alle altre Scritture, ovvero all'AT:

Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina. (2Pt 3,14-16)

Non possiamo però sapere quali lettere Pietro conoscesse. Possiamo ipotizzare che conoscesse le 10 che Marcione, a metà del II secolo, avrebbe ritenuto canoniche (Gal; 1-2 Cor; Rm; 1-2 Ts; Ef; Col; Fm; Fil); oppure che conoscesse anche quelle cosiddette "pastorali" (Tt; 1-2 Tm) di cui parla il canone di Muratori... Comunque sia, fin dall'antichità il corpus paolino fu ritenuto canonico. Ad esso fu aggiunta anche la lettera gli Ebrei, benché l'attribuzione a Paolo fu lungamente discussa. Il terzo gruppo di scritti canonici del NT comprende le restanti lettere e l'Ap. Tra questi solo 1Pt e lGv godono di canonicità indiscussa e sono chiamati protocanonici. Mentre deuterocanonici (canonici per i cattolici, ma non per i protestanti) sono Eb; Gc; 2Pt; 2-3 Gv; Gd; Ap e i passi di Mc 16,9-20 e quello di Gv 7,53-8,11. L'accoglienza di questi testi incontrò delle resistenze fino (ma non più oltre) verso la fine del IV secolo.

1.2 Testimonianze storiche

Seppure il canone sia stato definito a Trento, la consapevolezza della canonicità/autorevolezza degli scritti neotestamentari era sempre stata presente nella coscienza della chiesa.

a) Affiora già dagli stessi testi neotestamentari:

"Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete." (1Ts 2,13)

"Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici". (1Cor 15,3-5)

"Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera". (2Ts 2,15)

b) Emerge poi con maggior forza in occasione di due episodi storici: la controversia marcionita e quella luterana.

La prima deve il suo nome al suo protagonista, Marcione. Attorno alla metà del II secolo Marcione, ostile al giudaismo, sosteneva teologia dualista fondata sulla distinzione tra un Dio buono (quello del NT) e un Dio cattivo (quello dell'AT). Conseguentemente rifiutava l'AT e, del NT, riconosceva solo il vangelo di Luca e 10 lettere paoline. La posizione di Marcione ha suscitato una reazione immediata da parte delle comunità cristiane: opponendosi a Marcione, esse hanno riconosciuto la loro convinzione nella canonicità degli altri scritti neotestamentari e dell'AT! L'idea di canonicità di certi scritti era già diffusa ancor prima di essere definita formalmente.

c) La seconda controversia si colloca in un orizzonte storico differente, il XVI secolo, e nasce dalla affermazione di Lutero del principio della Sola Scriptura contro la normatività della tradizione ecclesiastica. Il dibattito, iniziato attorno al principio luterano Sola Scriptura aveva suscitato poi anche il problema del canone, ovvero dell'elenco dei testi che devono essere considerati Scrittura. Inizialmente, infatti, con il principio Sola Scriptura, Lutero aveva inteso opporre un principio materiale all'eccessiva importanza attribuita a tradizioni trasmesse e avvallate pur senza alcun fondamento materiale nella Scrittura; e, contemporaneamente, aveva inteso opporre un principio ermeneutico all'eccessiva importanza attribuita alla chiesa ministeriale nel leggere il testo. Contro tradizioni ritenute infondate e contro l'esclusivismo dell'interpretazione magisteriale della Scrittura, Lutero aveva affermato il principio della Sola Scriptura. Solo la scrittura trasmette la fede (principio materiale) e da sola la scrittura sa illuminare il lettore (principio ermeneutico). Ora, nel corso del dibattito con i controversisti cattolici, Lutero precisò ulteriormente la sua posizione dichiarandosi pronto ad opporsi alla stessa Scrittura qualora questa risultasse opposta a Cristo. "E qualora gli avversari facciano valere (urgere) la Scrittura contro Cristo, noi facciamo valere (urgere) Cristo contro la scrittura". In conseguenza del principio dell'urgere Christum (che per Lutero è il contenuto dell'apostolicità) Lutero definì il proprio canone assumendo, per quanto riguarda l'AT, il canone ebraico; rifiutando, per quanto riguarda il NT, quei testi incapaci di proporre energicamente Cristo: Eb, Gc, Gd, Ap. Contro questa posizione, il concilio di Trento afferma che occorre accogliere "tutti i libri dell'AT e del NT", "integri e in tutte le loro parti" (DZ 1501; 1504), e, riportandone l'elenco (DZ 1502-1503), definisce il canone.

Il sacrosanto concilio tridentino... Se qualcuno poi non accetterà come sacri e canonici questi libri, nella loro integrità e con tutte le loro parti... sia anatema. (DZ 1501-1504)

Osserviamo che con questa definizione Trento aveva inteso affermare l'oggettività delle Scritture sulla soggettiva interpretazione del lettore. Assumere un criterio (soggettivo) di lettura a partire dal quale selezionare il testo non è corretto! Espone all'arbitrio e al pericolo di confondere il mistero di Cristo con quanto si pensa o si crede di comprendere. Il significato della definizione dogmatica di Trento intende propriamente scongiurare questo pericolo: definendo il canone, il concilio afferma il primato della Scrittura sull'interpretazione del lettore. Nel caso specifico, il primato della Scrittura definita nel canone sull'interpretazione luterana. La precisazione nei confronti di Lutero è comprensibile e certamente corretta, ma non coglie del tutto il problema. Lutero, attraverso la sua interpretazione, aveva inteso portare alla ribalta il ruolo del lettore nell'accostare il testo, aveva, cioè, affermato la necessita che ognuno si accostasse personalmente alla Bibbia e che questa divenisse norma reale della vita del cristiano. In altre parole, Lutero, in questo certamente "moderno", sollevando il problema del rapporto tra il testo e il lettore, aveva sollevato il problema ermeneutico. Non basta sottolineare che la Bibbia deve essere conservata nella sua interezza e che questa deve guidare la comprensione del mistero di Cristo; occorre anche mostrare in che modo questa suscita la fede nel credente! Senza tale precisazione il dettato magisteriale appare semplicemente come una dichiarazione d'autorità:

L'affermazione tridentina del canone biblico integrale, pur necessaria, non è sufficiente, perché può ridursi anche semplicemente a un'affermazione formale di autorità, confermando così l'impostazione ereditata dalla teologia marcionita. Il problema sollevato da Lutero è quello della necessità che la norma formale riveli la sua dinamica interna, per essere trasparenza della norma reale (in questo senso a partire dal secolo scorso si è cominciato a parlare di "canone nel canone"). Tale norma reale per la fede cristiana certo non può essere che Gesù Cristo. Quello che dell'impostazione luterana può e deve invece essere contestato è l'opposizione fra Cristo e la Scrittura, la legittimità del "far valere Cristo contro la Scrittura"

Il problema ermeneutico sollevato da Lutero non è stato però avvertito e la riflessione successiva ha percorso la strada della ricerca storica delle testimonianze capaci di avvallare il dettato tridentino.

1.3 La puntualizzazione del Vaticano I

Il concilio Vaticano I ritorna sull'affermazione del canone con una puntualizzazione importante:

Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della chiesa universale, proclamata dal santo concilio di Trento; è contenuta "nei libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo, è giunta fino a noi" [1501]. Questi libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, nella loro interezza, con tutte le loro parti, così come sono elencati nel decreto di questo concilio e come si trovano nell'antica edizione latina della Volgata, devono essere accettati come sacri e canonici. La chiesa li considera tali non perché, composti per opera dell'uomo, sono stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza errore la rivelazione; ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla chiesa [can. 4]. Cfr. DZ 3006.

Con queste parole, il concilio avanza un'importante considerazione: nella fede della chiesa la canonicità della Bibbia si presenta innanzitutto come un dato indisponibile  alla chiesa stessa. Essa la accoglie, la riconosce, ma non la inventa, né la crea. Prima che essere una trasmissione nella chiesa, la canonicità è una trasmissione alla chiesa. E non solo la canonicità si presenta come un dato che ci precede, ma anche il canone, cioè l'elenco dei testi cui si riconosce tale autorità, ci precede. Quando il concilio di Trento ha definito il canone e ha prescritto di accogliere i testi, "nella loro integrità e con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e come si trovano nell'antica edizione della volgata latina" (DZ 1504), ha di fatto riconosciuto l'esistenza di una tradizione precedente al concilio stesso che ci consegna autorevolmente il canone. Il canone e la canonicità si trovano dunque all'interno di una tradizione più ampia che la Chiesa stessa, ad un certo punto, ha riconosciuto come assolutamente imprescindibile per conservare e trasmettere la propria fede. Con un esempio, potremmo paragonare la definizione del canone al momento in cui noi, volendo rispondere all'interrogativo: "chi siamo?", cerchiamo di identificare e raccogliere quei testi che sentiamo decisivi per noi poiché sono quelli dai quali ci sentiamo plasmati. Abbiamo pieno diritto di far questo e, contemporaneamente, piena autorità poiché nessuno (se non noi) è in grado di riconoscere i testi che ci hanno formato. Nello stesso momento in cui facciamo questa operazione riconosciamo anche di essere stati preceduti da questi testi: prima che li identificassimo essi stavano già dandoci un'identità. Riconosciuti come generatori della propria fede, questi testi sono stati allora canonizzati come punti di riferimento ormai imprescindibili anche per il futuro, proprio perché riconosciuti capaci di conservare e ritrasmettere anche alle generazioni future la stessa fede:

La fissazione di un "canone" delle Sacre Scritture fu la conclusione di un lungo processo. [...] Fissando il canone delle Scritture, la Chiesa fissava anche e definiva la sua stessa identità, cosicché le Scritture sono ormai uno specchio nel quale la Chiesa può costantemente riscoprire la sua identità e verificare, secolo dopo secolo, il modo in cui essa risponde continuamente al vangelo e dispone se stessa a esserne lo strumento di trasmissione (DV 7).

Fissando il canone, la chiesa fissa anche la sua identità, la regola della fede. Questo rappresenta, innanzitutto, la Bibbia nella vita della Chiesa.

Intermezzo: il gioco strutturale tra un testo e un lettore

Se dal punto di vista storico teologico la Bibbia rappresenta - come abbiamo visto - il testo canonico della fede, dal punto di vista ermeneutico essa rappresenta innanzitutto, e prima di tutto, un testo. Non dobbiamo sorvolare su questo aspetto. Anzi, approfondendo la fenomenologia della lettura potremmo forse comprendere ulteriormente cosa rappresenta la Bibbia nella vita della Chiesa. Cosa significa leggere un testo? Cosa accade nella lettura? Lasciamoci svelare dai testi stessi la risposta. Ci sono, infatti, nella letteratura, pagine in cui si raccontano episodi di lettura nei quali accade come se il testo stesso ci svelasse i suoi segreti. Consideriamo tre scene di lettura.

a) La lettura di Paolo e Francesca, ovvero: il racconto come esperienza di visione e rivelazione

...in luogo d'ogni luce muto,

che mugghia come fa mar per tempesta,

se da contrari venti è combattuto.

(Inf. V, 27-30)

"...Noi leggiavamo un giorno per diletto

di Lancillotto come amor lo strinse:

soli eravamo e senza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse

quella lettura, e scolorocci il viso;

ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso

esser baciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante".

(Inf. V, 115-138)

Mente che l'uno spirto questo disse,

l'altro piange, sì che di pietade

io venni men così com'io morisse;

e caddi come corpo morto cade.

(Inf.V, 139-143).

b) La lettura di Don Chisciotte, ovvero: il racconto come esperienza di identificazione e imitazione

Bisogna poi sapere che questo gentiluomo, nei periodi di tempo in cui non aveva nulla da fare (cioè la maggior parte dell'anno), si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi e a poco per volta ci si appassionò tanto che dimenticò quasi del tutto la caccia e anche l'amministrazione del suo patrimonio; anzi la sua curiosità e la smania di questa lettura arrivarono a tal segno, che vendé parecchi appezzamenti di terreno, e di quello buono anche, per comprarsi dei romanzi cavallereschi. (I, 21-22). Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormir poco e di leggere molto, gli si prosciugò talmente il cervello che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell'arsenale di sogni e d'invenzioni lette ne' libri fosse verità pura, che secondo lui non c'era nel mondo storia più certa. (I, 23). ...questo vostro libro non ha proprio bisogno di nessuna di quelle doti che voi dite che gli mancano; perché è tutta un'invettiva contro i romanzi cavallereschi... (Prologo, 11). E poiché questo vostro lavoro non mira che a distruggere l'autorità e il favore che hanno nel mondo e fra il volgo i romanzi di cavalleria [...]. Cercate anche che nel leggere il vostro racconto chi è melanconico sia mosso alle risa chi è allegro rida più che mai, l'ignorante non si annoi, il dotto ammiri l'invenzione, la persona seria non la disprezzi, e il saggio non manchi di lodarla. Soprattutto mirate a rovesciare questa costruzione senza fondamento, questi romanzi cavallereschi, aborriti da molti, ma lodati da molti di più; e se raggiungete questo scopo, non sarà poco. (Prologo, 11-12).

c) La lettura di Agostino, ovvero: il racconto come esperienza di trasformazione e conversione

Ponticiano infervorandosi continuò a parlare per un pezzo, e noi ad ascoltarlo in fervido silenzio. Così venne a dire che un giorno [...] egli era uscito a passeggiare con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli amici per proprio conto, si persero di vista. Ma questi ultimi vagando entrarono in una capanna abitata da alcuni tuoi servi poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cieli, e vi trovarono un libro ov'era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la lettura si formò in lui il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per votarsi al tuo. [...] Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta vergogna, adirato contro se stesso, guardò fisso l'amico e gli chiese: "Dimmi, di grazia, quale risultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che stiamo compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di più, a palazzo, del rango di amici dell'imperatore? E anche una simile condizione non è del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che ci arriveremo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco, lo divento subito". A man mano che leggeva, un mutamento avveniva nel suo intimo, ove tu vedevi, e la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all'amico suo: "Io ormai l'ho rotta con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di seguire Dio...". (VIII,6,15). Questo il racconto di Ponticiano. E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto ero deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me? Se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, c'era Ponticiano, che continuava, continuava il suo racconto, e c'eri tu, che mi mettevi nuovamente di fronte a me stesso e mi ficcavi nei miei occhi, affinché scoprissi e odiassi la mia malvagità. La conoscevo, ma la coprivo, la trattenevo e me ne scordavo. (VIII,6,15). Ma ora quanto più amavo i due giovani ascoltando gli slanci salutari con cui ti avevano affidato la loro intera guarigione, tanto più mi trovavo detestabile al loro confronto e mi odiavo... (VIII,7,16). A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando, e ripetendo più volte: "Prendi e leggi, prendi e leggi". Mutai d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L'unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: "Va, vendi tutte le cose che hai, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi". Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi: "Non nelle crapule e nell'ebrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze". Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono. (VIII,12,29).

d)  Sintesi e rilancio

L'analisi di queste tre scene di lettura ci ha permesso di descrivere ciò che (ci) accade leggendo. Abbiamo così iniziato a raccogliere gli elementi di una fenomenologia dell'atto di lettura che ci consenta di delineare il "gioco strutturale" che s'innesca attraverso la lettura, tra il testo e il suo lettore; e ci consenta quindi di mostrare, conseguentemente, come quel gioco, se condotto con il racconto evangelico, possa effettivamente condurre il lettore in un'esperienza simile a quella apostolica narrata dai vangeli Questa sequenza, infatti, non ricorda forse il modo con cui si è costituita l'esperienza della fede narrata nei vangeli? Coinvolgimento libero e gioioso, nuova comprensione di sé e del mondo, desiderio di imitazione, ma anche resistenza e ribellione, disponibilità alla conversione ma anche continui fraintendimenti e incomprensioni... questo complesso di sentimenti e pensieri che accompagnano un lettore non sono anche gli stessi che scandiscono l'esperienza della folla, di Nicodemo, del giovane ricco, degli apostoli...? A questo punto possiamo comprendere ancora più profondamente cosa rappresenta la Bibbia nella vita della Chiesa: riproducendo, al pari di qualsiasi altro testo, quel dinamismo di rivelazione, identificazione e trasformazione, la Bibbia rende possibile quel dialogo tra Dio, autore del testo biblico, e l'uomo, il suo lettore. Il dono dello Spirito Santo assicura alla lettura, condotta nella "preghiera" (così la Dei Verbum) o più semplicemente nel contesto ecclesiale, quella fecondità che origina, rinnova, alimenta la fede.

 

2. Il significato del canone

Le riflessioni sull'esperienza della lettura ci consentono di comprendere meglio il significato teologico del canone. Anticipando quanto riusciremo a comprendere solo al termine di questa riflessione possiamo dire che dal punto di vista teologico, la Bibbia nella vita della chiesa rappresenta quella memoria che consente alla nostra fede di strutturarsi in modo omologo a quella apostolica. Per comprendere questo, dobbiamo ritornare a riflettere sul modo con cui si è prodotta la fede degli apostoli a partire dai racconti degli incontri con il Signore risorto. Anche senza rileggere i testi, siamo forse in grado di ricordare che in ogni racconto dell'incontro tra il Signore risorto e gli apostoli i discepoli sono incapaci di riconoscere Gesù: né gli anni condivisi con Lui (dunque, l'averlo conosciuto fisicamente), né l'apparizione del risorto sembrano essere sufficienti a generare la fede. Questa nasce, invece, a partir da qualcos'altro, qualcosa che possiamo cogliere in ogni racconto delle apparizioni ma che noi consideriamo in particolare in riferimento al racconto dei discepoli di Emmaus:

Una sintesi preziosa di tale memoria - in cui è trattenuta l'immagine della fides/evidenza sincronica alla contemporaneità storica degli eventi vissuti - è quella offerta nella celebre elaborazione lucana dell'apparizione ai due discepoli (Lc 24). Nell'oggettivazione narrativa della vicenda di Gesù presentata dai discepoli al viandante 'presumibilmente' straniero, Gesù appare come "profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo", che i sommi sacerdoti e i capi giudaici hanno "consegnato per farlo condannare a morte" e poi "hanno crocifisso". I discepoli appunto avevano sperato che, "fosse lui a liberare Israele", ma ormai, "sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute" (Lc 24,19b-21). Il resoconto termina con la menzione del fatto che alcune delle donne dicono di un'apparizione di angeli che lo annuncia vivente: ma in verità, lui non è stato (ancora) visto. La reazione di Gesù/Straniero è assai interessante: i discepoli non vengono rimproverati perché non credono alla parola/annuncio che dice, 'Gesù vive', bensì dichiarati 'ottusi' (anòétoi) e tardi nell'aprire il cuore alla fede perché non hanno compreso e accolto la parola che diceva "Il Cristo deve morire". E pertanto, la loro ottusità nei confronti di Gesù che si presenta nella assolutezza della sua verità dipende essenzialmente dal fatto che "essi non hanno visto la sua morte come atto costitutivo - bensì come negazione - di tale verità. Essi hanno cioè prestato credito, oltre che alla parola di Gesù, all'argomento prodotto dai capi del popolo: che miravano a verificare, nella morte delegittimante di Gesù, la falsità della sua pretesa rappresentanza cristologica. La parola di 'Gesù risorto' non si limita a chiedere che, 'nonostante' la morte che gli è stata inflitta, i discepoli continuino a credere nella sua verità. Essa chiede loro di penetrare e di accogliere la necessità della sua morte come atto decisivo per la conferma della sua verità. Dunque per la identificazione cristologica che egli intende. Essi credono di aver 'visto' la sua morte. In realtà essi hanno visto la morte della loro cristologia. In base a tale connessione Gesù può anche sopravvivere nella loro 'memoria', essere oggetto della loro 'devozione', rappresentare in qualche modo un motivo di 'testimonianza'. Ma certo nessun annuncio di risurrezione potrebbe essere inteso -e in effetti non lo fu, e non lo è tutt'oggi - in termini che vadano oltre quelli di una 'immaginazione' prodotta dal desiderio. Come del resto sanno bene anche, i discepoli, che proprio una tale immaginazione attribuiscono alle 'donne'. E se invece l'attuazione della assoluta verità di Gesù richiedesse necessariamente il suo consegnarsi a quella morte, certamente evitabile e contraddittoria; e comportasse la coerenza teo-logica, certamente dolorosa e dialettica del suo consenso ad essere tolto in quel modo dalla scena della storia? Se fosse proprio il suo "continuare a vivere ad ogni costo", facendo coincidere il compimento della sua missione con l'affermazione storica di sé in quella precisa congiuntura, ciò che non doveva accadere, e dunque doveva essere evitato? La decifrazione dell'apparire di Gesù dopo la sua morte impone la riapertura presso la coscienza dei discepoli di questi interrogativi: quale condizione necessaria per l'apprezzamento dell'incontro con, 'Gesù risorto' quale esperienza reale. [...] La ripresa memoriale (struttura intrinseca della traditio testimoniale) non è qui figura accessoria (sostitutiva) dell'esperienza che accede alla verità dell'accadere. Ma nel senso radicale, irriducibile ermeneuticamente, per cui la ripresa memoriale è condizione di accesso alla realtà dell'accadere medesimo. Perché solo come realtà del già accaduto essa sostiene l'indice realistico dell'accadere, e sottrae la ripresa memoriale al sequestro autoreferenziale della coscienza. In questa dinamica è integrata ora l'esperienza di 'Gesù risorto': nella sua stessa 'unità' e 'differenza' con l'accaduto di 'Gesù morto'. Il senso dell'apparire di Gesù è dunque manifestamente collegato con l'intenzione di provocare una revisione radicate del senso attribuito alla separazione provocata dalla sua morte. E pertanto del senso percepito nell'oggettività vissuta del suo apparire storico. Diversamente, dove tale provocazione non venga accolta, non è data alcuna possibilità di vedere proprio Gesù nell'apparire attuale. La provocazione è destinata a rimanere permanente nel quadro della storia mondana della testimonianza. Differenziale per quanto riguarda l'evento rivelatore della connessione che inaugura la storia della fede testimoniale. Identico per quanto riguarda la struttura cristologica della coscienza credente.

I discepoli non vengono rimproverati per non aver creduto alle donne, ma per non aver creduto alla parola dei profeti: perciò hanno dovuto ritornare alla memoria di quanto vissuto con Gesù e in particolare della sua morte che essi, come tutti, avevano interpretato come smentita della sua missione! Ora, invitandoli a compiere questo esercizio memoriale, Gesù sprona i discepoli a vedere nella sua morte la massima testimonianza di quel volto di Dio-Abba che Lui stava annunciando attraverso forme di dedizione e liberazione da ogni male fisico e morale. Pur essendo dalla parte di Gesù, infatti, i discepoli avevano continuato a condividere con i capi giudaici l'idea che Dio non avrebbe mai abbandonato il suo  messia sulla croce. "Dio te ne scampi, questo non ti accadrà mai" aveva detto Pietro a Gesù dopo l'annuncio di Cesarea di Filippo. Ora l'apparizione del Risorto invita a discepoli a rivedere la loro "fede in Gesù". Attraverso questo esercizio memoriale propiziato dal Risorto essi possono riconoscere nell'apparire storico di Gesù la rivelazione della verità di Dio e scoprire il dilemma vissuto da Gesù: sfuggire alla morte in croce (ma questo avrebbe significato retrocedere rispetto all'annuncio che aveva sostenuto: Dio è proprio un Padre buono) o rimanere fermo nella propria posizione confermando la propria fede/testimonianza nel Padre (sapendo che i suoi avversari avrebbero inteso questa sua posizione come smentita della sua pretesa testimonianza). Ora, i vangeli, nella loro costituzione sono esattamente il frutto di questo esercizio memoriale e riconoscimento: dedicano abbondante spazio ai racconti della passione poiché sono quelli su cui gli apostoli hanno meditato maggiormente, quindi risalgono - come in un percorso memoriale - agli episodi della nascita. A questo punto comprendiamo il ruolo della bibbia nella vita della chiesa, cioè comprendiamo che i testi biblici permettono anche a noi - lettori di oggi - di ripercorrere la memoria della vicenda vissuta da Gesù in modo da riconoscere in essa - da lasciarci persuadere - di imbatterci realmente in Gesù nel passaggio di Dio nella storia umana.

...fenomenologicamente parlando, in riferimento alla situazione in cui si produce il riconoscimento, noi siamo perfettamente contemporanei ai discepoli della prima ora: nella condizione della relazione con Gesù crocifisso, che si presenta come vivente di una vita che è già quella di Dio, ma non è ancora la nostra e strutturalmente parlando, infatti, la fede cristiana scaturisce certamente da un ripensamento della vicenda di Gesù: che perviene alla scoperta di ciò che in essa volle propriamente mostrarsi, ma che la contemporaneità con la vicenda di Gesù non bastò a far apprezzare. E' in questo modo che la vita di Gesù è percepita come la rivelazione. La Scrittura neotestamentaria è l'esito di questo processo in forma di narrazione, applicazione, trascrizione. Ma essa, nella forma della Scrittura evangelica, non ci consegna soltanto il risultato di questo ripensamento: bensì ne riproduce il movimento circolare e ne indica le condizioni di possibilità. E ciò essa fa, in primo luogo, dichiarando con assoluta chiarezza che quel movimento e quelle condizioni si verificarono necessariamente anche per i discepoli della prima ora. Neppure ad essi bastò, per il conseguimento di una fede testimoniale rischiarata dalla verità della rivelazione, la frequentazione della storia di Gesù. Come non bastò il suo presentarsi al loro cospetto, nel modo misterioso eppure evidente delle poche emblematiche apparizioni del Risorto. Il riconoscimento del Risorto dovette essere mediato attraverso l'evidenza disponibile di Gesù mediante la memoria di Lui. E la memoria di Lui dovette essere interamente riveduta e corretta: nel confronto con le Scritture antiche, con l'esperienza dello Spirito, con l'evidenza della sua iniziativa nello spazio di una testimonianza accesa dalla presenza di Lui... Ha precisa coscienza dell'impressione sintetica che il contemporaneo di Gesù - e persino il discepolo - può conservare in prima battuta della vicenda vissuta della frequentazione di Lui: e non esita a confessare che essa non approda affatto inevitabilmente al riconoscimento della sua verità propria: e dunque all'inveramento della rivelazione, alla autenticità della fede. ...appunto, conservando l'evidenza della differenza dei piani e dei momenti, il testo la tiene anche in permanente evidenza a futura memoria. Affinché ci si possa servire del suo gioco strutturale in rapporto alla condizione nella quale ci si trova. Se si vuole sapere la storia di Gesù, la scrittura testimoniale non si sottrae affatto, entro certi ragionevoli limiti di stile epocale della narrazione testimoniale e di economia complessiva del testo (Gv 21,24-25), a questo tipo di esplorazione [...] Se si vuole riattivare l'esperienza dei riconoscimento, aprendola sull'attualità conciliata o problematica della coscienza credente, la Scrittura testamentaria consente di dare un nome riconoscibile a spiriti ignoti o incerti; di ristabilire l'omologia delle pratiche cristiane con la relazione del Figlio; di ritrovar la forza persuasiva della parola del Signore e l'intima  certezza di trovarsi in compagnia con Lui.

Dunque, i testi biblici consentono anche alla nostra fede di strutturarsi in modo omologo alla fede apostolica. Usiamo il termine "omologo" per dire che si tratta della stessa fede degli apostoli: per noi come per loro, la fede nasce da un esercizio memoriale, dal ricordare la storia di Gesù riconoscendo in essa la verità di Dio (neppure ad essi, infatti, è stato sufficiente aver condiviso alcuni anni con Gesù per riconoscerlo, e neppure è stato sufficiente averlo incontrato risorto). Anche se, dobbiamo precisare, il nostro ricordo si basa sul loro ricordo: questo costituisce la differenza.