L'ISPIRAZIONE  E  L'ERMENEUTICA  DEL  TESTO  BIBLICO

Questa  lezione  è  stata  curata  dal  Prof. D'Alessio  don  Davide  (docente  di  teologia  fondamentale  presso  il  Seminario  Arcivescovile  di  Milano)

 

1. Il tema, come nasce?

Abbiamo parlato del canone, cioè dell'importanza che riveste la Bibbia nella vita del credente. In sintesi, abbiamo detto che la Bibbia, presentando la memoria degli apostoli, consente alla fede del credente di strutturarsi in forma omologa alla fede apostolica. A questo punto ci si potrebbe chiedere: la memoria apostolica è realmente conservata nel testo? In altri termini, cosa ci garantisce che essa sia presente in modo corretto, senza errori? Il discorso svolto circa il canone può "funzionare" solo a condizione che il testo non contenga errori. Perché la Bibbia come tutti gli altri libri, non potrebbe contenere degli errori? E poi, ammesso che non contenga errori, cosa garantisce la piena comprensione del testo? Non potremmo anche fraintenderlo? Se, come ogni altro testo, anche la Bibbia deve essere interpretata, come possiamo essere certi di interpretarla correttamente?

Queste domande non sono recenti, hanno sempre accompagnato la coscienza del credente: fin dall'antichità i Padri hanno riflettuto sulla verità del cristianesimo e quindi del testo biblico contrapponendolo agli errori della filosofia (Giustino, Agostino). E, sempre nell'antichità, come vedremo, sono state elaborate le prime fondamentali regole ermeneutiche per accostare correttamente il testo. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che è solo in un momento storico preciso che questi interrogativi hanno iniziato a guadagnare quella forza critica che sentiamo affiorare ancora oggi quando li sentiamo pronunciare. Ho usato l'espressione "forza critica" perché queste domande esercitano una "forza" nei confronti della fede del credente, lo mettono alle strette, lo inchiodano al muro. E' una forza "critica" perché mettono in crisi la sua fede, gli tolgono il terreno da sotto i piedi. Una volta affiorati questi interrogativi non possono più essere elusi, a meno di rassegnarsi ad avere una fede ingenua. Ma quando ne avvertiamo tutta la forza, allora non è più possibile continuare a credere senza almeno tentare di cercare una risposta. Ispirazione e ermeneutica Quando dunque sono nate queste domande e come hanno potuto acquistare quella forza critica che gli riconosciamo? E' sempre difficile individuare la data di nascita di un'idea, o, forse, più correttamente, dovremmo dire che è impossibile: le idee nascono nella storia della coscienza umana lentamente. Più correttamente, però, potremmo dire che ci sono momenti in cui un'idea affiora con maggior forza, anzi, con una forza tale da apparire completamente nuova, seppure, certamente essa era già affiorata più debolmente altre volte, in altre circostanze precedenti. In ogni caso, possiamo dire che le domande con le quali ci stiamo confrontando affiorano e si impongono con forza lungo quella stagione culturale che chiamiamo "modernità" e, più precisamente, all'interno dell'illuminismo. Si tratta di un periodo, la "modernità", che per convenzione abbraccia il XVI secolo estendendosi fino all'inizio del XX. Ma, come dicevamo, questi estremi possono essere ridiscussi in base alla data cui si retrodata o postdata l'inizio di un'idea. Più interessante è invece soffermarci un istante a riflettere sul significato di questo periodo. Suggerisco di sostare su tre termini che, pur non essendo perfettamente sinonimi, esprimendo ciascuno un proprio punto di vista, possono aiutarci a penetrare nello spirito dell'epoca poiché ciascuno di essi come una bambola matrioska ci introduce sempre più profondamente nel cuore della modernità. Modernità è il primo termine. "Moderno" è un termine che ancora oggi apprezziamo. "Essere moderni" significa essere all'altezza dei tempi che cambiano. Modernità porta con sé l'idea di novità e, implicitamente, l'idea di qualcosa di migliore. In riferimento alle persone l'espressione acquista una sfumatura decisamente positiva: una persona moderna, all'opposto di una persona "all'antica", è una persona consapevole e libera nelle proprie scelte, non condizionata dal passato immediatamente sentito come pregiudiziale; una persona aperta, di ampie vedute, capace di capire i giovani. Dunque, moderno, modernità sono termini che contengono in sé l'idea di novità, nuovo... sullo sfondo della consapevolezza di vivere in un mondo che cambia che si incammina verso un futuro migliore e al quale occorre adattarsi con la massima apertura d'animo. L'idea della storia, della libertà, del progresso, della novità, del futuro migliore... sono idee che nascono nella modernità. Oggi molte di queste idee si sono indebolite: il futuro è più precario e ci si volge talvolta al passato con nostalgia. Nella stagione moderna invece queste idee erano accolte con entusiasmo, corroborate dalle nuove scoperte scientifiche che si traducevano in un miglioramento delle condizioni di vita. La vita improvvisamente si accendeva, come una giornata nuvolosa e buia improvvisamente illuminata da un raggio di sole che lentamente avvolge dolcemente tutto quello che incontra. Illuminismo è il secondo termine. La "luce" che nei secoli precedenti era individuata nella grazia di Dio e apparteneva al vocabolario religioso che riconosceva in Gesù la luce del mondo, ora trova la sua origine nella ragione. Si inizia a parlare di "luce della ragione". Agire razionalmente significa agire responsabilmente e coscientemente. L'uomo illuminato è colui che non si affida ai pregiudizi o giudizi altrui ma indaga personalmente alla luce della sua ragione. E così arriviamo al terzo termine: razionalismo. Razionalismo deriva dal latino "ratio" da cui l'italiano "ragione". Il razionalismo indica quel movimento di pensiero che ha assunto la ragione come norma del reale: quanto non è razionale non è reale o non può essere riconosciuto come verità. Dunque i sentimenti, le emozioni, ma anche la fede e le opinioni personali... se non vengono passate al vaglio della ragione non possono vantare alcuna pretesa di verità. Ancora una volta possiamo riconoscere come alcune di queste idee oggi si sono indebolite: suprema norma della realtà oggigiorno non è più la ragione ma il sentire, l'emozione. Vale quanto dà emozione! E tuttavia ancora oggi permane come evidenza comunemente accettata l'idea che la ragione si contrappone alla fede, come la luce alle tenebre, la verità universale all'opinione personale, assimilata poi subito al pregiudizio e addirittura all'errore. Ecco, è in questo contesto culturale, in cui nascono i sospetti e le accuse nei confronti della fede, che nascono anche gli interrogativi critici nei confronti del testo biblico. Una sensibilità moderna non accetta con entusiasmo tutto quanto proviene dal passato: un libro antico non è immediatamente accolto come veritiero, deve essere sottoposto all'esame della ragione. Neppure la Bibbia può vantare un'accoglienza indiscriminata: la sua pretesa di verità deve essere sottoposta al giudizio della ragione. E di fronte al tribunale della ragione quanto non appare razionale o ragionevole, cioè quanto non si riesce a spiegare in termini razionali deve essere considerato un errore. E così, sulla scia di queste premesse, il racconto della creazione del mondo appare come una favola tanto più falsa quanto più si afferma la fede nella teoria di Darwin assunta come spiegazione evidente in quanto razionalmente persuasiva. Anche i racconti di miracoli sono ritenuti fantasiosi, invenzioni o copie di altre narrazioni prebibliche, tratte dalla letteratura orientale o ellenica... Lo stesso racconto della resurrezione di Gesù viene ritenuto inverosimile e spiegato ricorrendo all'immaginazione dei discepoli... Gli esempi potrebbero continuare, ma questi sono sufficienti per comprendere la forza della provocazione illuminista. Le domande con cui ci confrontiamo sono figlie di questa cultura moderna. Averlo riconosciuto ci consente di affermare che non sarà realmente possibile trovare una risposta senza ridiscutere anche più ampiamente il contesto che le ha generate. E il confronto con queste problematiche nella teologia contemporanea è tutt'altro che compiuto. Qui, dopo aver segnalato l'ampiezza del tema, mi limito a segnalare le risposte ufficiali del magistero della chiesa e le spiegazioni teologiche più accreditate lungo la storia, proponendo poi le coordinate per un ripensamento di queste questioni.

 

2. Il dato di fede

Le critiche del razionalismo arrivavano al cuore della fede cristiana: contestare la creazione, i miracoli, la divinità di Gesù, la sua resurrezione... significava abbattere il cristianesimo. Occorreva riaffermarne la verità ribadendo con chiarezza la sacralità della Bibbia, il suo carattere singolare, divino; ma contemporaneamente occorreva anche rispondere alle accuse dell'illuminismo. Affermare e rispondere. Affermare autorevolmente e rispondere criticamente. E' così, in questo contesto, che nascono gli interventi ufficiali del magistero della chiesa mirati a ribadire il dato della fede cristiana: la costituzione dogmatica del concilio Vaticano I, Dei Filius; l'enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893), l'enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII (1943) e la costituzione Dei Verbum del concilio Vaticano II (1965). Consideriamoli brevemente.

2.1 Dei Filius

Citando i libri che a suo tempo il concilio di Trento aveva elencati come canonici, il Vaticano I dichiara che

la Chiesa li accoglie come sacri e canonici [...] perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore, e come tali sono stati consegnati alla Chiesa.

 Il testo afferma solennemente che la chiesa ritiene sacri i testi canonici, cioè la Bibbia in forza del fatto che essi sono stati "ispirati" dallo Spirito Santo e quindi hanno Dio per "autore". Il testo ribadisce dunque iI carattere divino della Bibbia e lo spiega in forza del fatto che Dio ne è all'origine in quanto autore e ispiratore. E' qui che compare per la prima volta nel linguaggio magisteriale il termine "ispirazione". Il vocabolo ha un'origine biblica, deriva dalla traduzione vulgata di due espressioni:

Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio (divinitus inspirata) e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. (2Tm 3,16)

Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo (Spiritu sancto inspirante) parlarono quegli uomini da parte di Dio. (2Pt 1,20-21)

Questo testo è conosciuto come il dogma dell'ispirazione, cioè la proclamazione più solenne della fede nel carattere sacro del testo biblico.

2.2 Providentissimus Deus

L'enciclica approfondisce la relazione tra l'Autore-Dio e l'agiografo:

...DZ 3293

La Bibbia è dunque il risultato di un'azione di Dio sull'intelletto e sulla volontà dell'uomo. Questo le assicura l'origine divina e, conseguentemente sulla base della convinzione che Dio è all'origine della verità e non della menzogna, suggerisce che nella Bibbia non ci siano errori. L'assenza di errori (inerranza) e l'origine divina (ispirazione) sono affermate nello stesso momento. Quindi se esistono differenze tra le affermazioni bibliche e quelle scientifiche non si deve ritenere per principio, pregiudizialmente, le prime false e le seconde vere, piuttosto in primo luogo si deve pensare che entrambe sono vere e, in secondo luogo, si devono comprendere le loro differenze come differenze di prospettive. Non dovrebbe dunque esistere un conflitto tra la Bibbia e la scienza, qualora si tenga conto del differente punto di vista.

2.3 Divino Afflante Spiritu

L'ispirazione e l'inerranza sono ribadite anche nell'enciclica di Pio XII. In particolare, per quanto riguarda l'inerranza, troviamo qui la risposta alla domanda che spontaneamente sorge seguendo il filo delle argomentazioni di Leone XIII. Se in linea di principio non ci deve essere conflitto tra la scienza e la Bibbia poiché entrambe dicono la verità, come interpretare però le affermazioni della Bibbia che contraddicono effettivamente il punto di vista della scienza? Come conciliare il racconto della creazione con la teoria della genesi dell'universo da un Big Bang? A queste domande l'enciclica risponde di fatto con l'accettazione del principio dei generi letterari. La teoria dei generi letterari, formulata nei decenni precedenti all'interno dell'esegesi, prevede che i testi biblici possano essere catalogati secondo diversi generi letterari: parenetico, letterario, metastorico, storico... si tratta, in definitiva, di riconoscere la differente qualità dei testi. Una parabola non è un racconto storico e questo, a sua volta, non è un brano sapienziale. Conseguentemente non ha senso confrontare un testo biblico di genere sapienziale con un resoconto storico o scientifico. Appartengono a generi letterari differenti e la verità contenuta in uno di essi non si pone sullo stesso piano di quella contenuta in un altro. Così, per citare nuovamente l'esempio della creazione, i primi 11 capitoli del libro della genesi intendono affrontare il mistero dell'esistenza a partire dalla sua origine, sono un racconto chiaramente "metastorico" cioè proteso a riflettere sulla vita nelle sue dimensioni extratemporali. Da questo punto di vista essi non intendono affatto sostenere che la nascita del mondo e quella dell'uomo siano avvenuti in 7 giorni! Non intendono affermare una teoria da contrapporre a quella elaborata dalla scienza. Intendono, invece, offrire un racconto che consenta al lettore di penetrare più profondamente nel mistero della vita che, comunque, sfugge sempre anche alla descrizione scientifica. Per quanto concerne invece l'ispirazione, senza ricorrere all'immagine dell'autore, la Divino Afflante Spiritu introduce un'interessante analogia che, come vedremo, sarà poi ripresa dal Vaticano II:

Come la Parola sostanziale di Dio si è fatta simile agli uomini in tutti i punti, eccetto il peccato, così le parole di Dio, espresse in lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio umano in tutti i punti, eccetto l'errore. (Divino Afflante Spiritu, EB 559)

Così, senza ulteriori considerazioni, l'enciclica suggerisce di pensare al mistero della parola di Dio in parole umane analogamente al mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio.

2.4 Dei Verbum

Tutti i motivi espressi nei documenti precedenti sono stati ripresi nella costituzione Dei Verbum del secondo concilio Vaticano.

Le verità divinamente rivelate... Ma per comporre i libri sacri Dio scelse alcuni uomini e si servì di loro nel possesso delle loro facoltà e capaciti affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva. (DZ 4215)

Per quanto riguarda l'ispirazione, troviamo l'immagine di Dio come Autore per descrivere il processo della formazione dei testi, precisando subito, per allontanare l'idea che gli agiografi siano stati delle semplici marionette, che anche loro sono stati dei "veri" autori. Ritroviamo anche l'analogia tra la Bibbia e l'incarnazione:

Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo. (DV 13)

Mentre, per quanto riguarda l'inerranza, accanto al riconoscimento di alcuni risultati dell'esegesi storico-critica circa la formazione dei testi (DV 19), troviamo un'importante precisazione. Parlando della verità della Bibbia il testo aggiunge, brevemente,  "in vista della nostra salvezza".

La profonda verità poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione. (DV 2).

E' un inciso significativo. Intende dire che la verità di cui tratta la Bibbia è precisamente quella che riguarda la nostra salvezza. E nel contesto del documento conciliare appare chiaramente che la verità della Bibbia, di cui si dice che è "per la nostra salvezza", è Gesù Cristo: dunque la verità della Bibbia non deve essere pensata nella forma di affermazioni teoretiche incontrovertibili, quanto piuttosto nella forma di una conoscenza di Gesù: di lui si parla nelle profezie antiche, nelle promesse di Israele... In questo modo precisando il campo della verità biblica, il documento sottrae il testo biblico dal confronto con le teorie della scienza.

 

3. Le spiegazioni teologiche

Se le affermazioni dogmatiche hanno custodito il dato della fede (la verità del testo biblico), indicandone la ragione nella sua origine divina (ispirazione), la teologia contestuale ha cercato in diversi modi di spiegare quello che il magistero aveva avuto la premura di ribadire. Sono così nate alcune teorie divenute classiche.

3.1 Teoria strumentale

Questa prima teoria nasce già all'interno dell'età patristica in riferimento alla consuetudine di ritenere l'agiografo uno "strumento" nelle mani di Dio. Questa immagine si rafforza all'interno della tradizione scolastica alla luce della distinzione tra causa principale e causa strumentale: Dio agirebbe da causa prima o increata sull'autore umano, lasciandolo scrivere conformemente alla propria natura, producendo però (in forza dell'azione divina) un effetto superiore a quello che avrebbe ottenuto senza l'azione di Dio. In questo modo Dio promuoverebbe l'azione dello "strumento umano", consentendole di raggiungere un risultato particolare che giustificherebbe il ruolo singolare della Bibbia tra tutte le cose create. Sulla scia di questo modo di intendere l'azione di Dio si è anche pensato di descrivere la relazione con l'agiografo nei termini di una dettatura: come se Dio semplicemente dettasse e l'agiografo fosse un semplice amanuense. Forse l'espressione biblica del salmo 45,2 - dove si legge "la mia lingua è stilo di scriba veloce" - può avere incoraggiato l'immagine di un agiografo come "penna" nelle mani di Dio. In ogni caso la spiegazione della relazione tra Dio e l'uomo a livello del testo biblico in termini di dettatura è divenuta comune a partire dal XVI secolo, a seguito dell'espressione "spiritu sancto dictante" (DZ 1501) utilizzata dal concilio di Trento, citato in seguito anche dal Vaticano I. L'espressione estrema di questa teoria si trova nella formula calvinista del 1675 (Formula Consensus Helvetica) secondo cui Dio avrebbe dettato all'agiografo anche i punti di interpunzione.

3.2 Teoria letteraria

La teoria letteraria - sviluppata nel XIX secolo ad opera di J.B. Franzelin - rappresenta il tentativo di spiegare la relazione tra Dio e l'agiografo nella composizione del testo biblico ricorrendo all'analogia con la scrittura di un testo. Comporre in testo significa pensare, volere e scrivere effettivamente. Analogamente, nella composizione del testo biblico l'autore lo ha pensato e voluto e scritto. Ma in questo caso si deve distinguere tra un autore principale e un autore secondario. L'autore principale, come si era precisato fin dalla controversia marcionita e come il Vaticano I aveva ribadito, non può essere se non Dio stesso, l'autore secondario, invece, è l'agiografo. Ora, Franzelin attribuiva a Dio il ruolo di colui che compie la sua azione agendo sull'intelletto e la volontà dell'autore umano, così che questi concepisse nella sua mente e volutamente scrivesse solo quanto Dio intendeva comunicare.

3.3 Teoria ecclesiologica

Attorno alla metà del secolo scorso K. Rahner ha suggerito di riflettere sull'ispirazione in riferimento all'esperienza ecclesiale. Da questo punto di vista l'ispirazione rappresenterebbe la condizione di possibilità della chiesa cioè quell'oggettivazione della rivelazione che permette alla chiesa di trasmettere la rivelazione. Se la chiesa non avesse a disposizione un corpo di testi ispirati che custodiscano grazie a Dio la testimonianza del suo stesso volto, come potrebbe trasmettere la rivelazione lungo i secoli? In termini ancora più semplici: se la chiesa non avesse libri che raccontano senza alcun errore la rivelazione di Dio in Gesù come potrebbero altri uomini incontrarsi con Lui? Da questo punto di vista la presenza di un corpo canonico di testi ispirati da Dio stesso rappresenta una necessità fondamentale per l'esistenza della chiesa stessa. L'ispirazione dunque - è la conclusione di Rahner - rappresenta il dono o se vogliamo la provvidenza con cui Dio garantisce alla chiesa la presenza di un riferimento imprescindibile per accedere alla rivelazione.

3.4 Teoria profetica

Meno precisata delle precedenti, la teoria profetica interpreta l'ispirazione alla luce dell'esperienza profetica. I germi di questa teoria si trovano già in Tommaso, nello sulla profezia, dove l'ispirazione è interpretata come la "causa" o l'influsso divino che eleva lo spirito del profeta al di sopra del livello ordinario, conferendogli una forza intellettuale speciale. Più recentemente, la teoria è stata rilanciata da A. Schokel, nel suo studio: I Profeti. Ascoltiamo un passaggio significativo:

"Dio si impadronisce dei profeti, ne interrompe le attività, li prende al suo servizio o li sceglie e prepara ancor prima che vengano concepiti; non che il profeta si dedichi esclusivamente a profetizzare, o proclami messaggi periodicamente e frequentemente come i puntuali burocrati della magia e della divinazione (Is 47,13). Deve essere bensì a disposizione di Dio in qualunque momento e con qualunque messaggio: "dove io ti manderò, andrai; ciò che io ti comanderò, lo dirai" (Ger 1,7). [...] I profeti sono uomini della parola, devono cioè porre a disposizione di Dio soprattutto il loro linguaggio, come se dovessero dare la carne e il sangue, la vita e l'espressione della loro lingua perché in essi si incarni la parola di Dio. Evitiamo una concezione estrinseca del servizio della parola, che potrebbe essere suggerita da alcune formule. "Il Signore rivolse la parola al tale", "metto le mie parole sulla tua bocca" (Ger 1), "il Signore mi risveglia l'orecchio perché io ascolti". Qualcuno potrebbe concludere, e ha concluso, che il profeta ascolta, impara a memoria e ripete alla lettera le parole di Dio. Non è così. Altre immagini ci permettono di comprendere che Dio si incarna nella parola umana dal di dentro: Ezechiele deve mangiare e assimilare il rotolo, Geremia avverte la parola di Dio come lava ardente nel suo interno. E questa visione conferma l'analisi stilistica dei testi profetici: i1 profeta deve elaborare gli oracoli col sudore della fronte, come coscienzioso artigiano della parola profetica" (cit. da P.SEQUERI, Il Dio affidabile, 647)

Pensare all'ispirazione in riferimento all'esperienza profetica, significa dunque pensare al modo con cui Dio si rende presente nella storia dell'uomo, nella sua biografia e sottolineare come tocchi precisamente a quest'uomo trovare il modo di esprimere questa conoscenza di Dio. All'interno di questa teoria non c'è spazio per una comprensione dell'ispirazione come dettatura o come causa esterna che agisca sull'agiografo producendo un testo ispirato.

 

4. Una pausa di riflessione

A questo punto dobbiamo fermarci e riflettere. Propongo due interrogativi, il primo concernente la logica complessiva della posizione assunta dal magistero e dalla teologia e il secondo concernente la struttura delle argomentazioni teologiche.

4.1 La logica degli interventi

Ci chiediamo innanzitutto: i dati del magistero e le spiegazioni teologiche hanno risposto effettivamente alle questioni che venivano avanzate dalla cultura moderna? Ricordiamo che la posta in gioco era la verità della fede cristiana che il razionalismo pretendeva criticare in forza dell'esercizio critico della ragione applicato al testo biblico. A questa critica il magistero ha risposto ribadendo la verità della fede affermando la verità della Bibbia. Questa affermazione ha trovato la sua giustificazione, il suo fondamento, nella dottrina dell'ispirazione. In questo senso il magistero ha risposto alla critica, tuttavia, avvertiamo subito che questa risposta non poteva essere apprezzata da una cultura che aveva assunto la ragione come nonna del reale. La risposta del magistero, infatti, in definitiva si riassumeva nel dire: "La Bibbia è vera, contiene la verità perché, come si è sempre creduto, è stata scritta da Dio che è la Verità". E' stato importante ribadirlo in un contesto di forte disorientamento, ma questo non era sufficiente, non poteva soddisfare né le richieste del razionalismo, né le esigenze della fede cristiana. Non era sufficiente per il razionalista perché una cultura che assume come vero e reale quanto viene sottoposto al giudizio critico della ragione non poteva accettare un argomento d'autorità come quello espresso dal magistero. Ma non era sufficiente neppure per il credente perché la fede, che presuppone il libero consenso, vuole riconoscere la verità che accoglie e non semplicemente credervi in forza dell'affermazione che Dio ha scritto la Bibbia. La questione non può quindi dirsi chiusa: la domanda sulla verità della Bibbia e sul modo con cui l'uomo si incontra con questa verità resta ancora un compito da svolgere. In questo senso le affermazioni magisteriali più che le spiegazioni teologiche contengono spunti che potrebbero essere approfonditi: penso all'analogia tra il mistero dell'incarnazione e la scrittura biblica, agli apprezzamenti circa le distinzioni tra i diversi generi letterari, all'inciso "per la nostra salvezza"... Affrontare questi temi significa affrontare la questione ermeneutica. Prima di accennarvi, soffermiamoci però su un secondo interrogativo.

4.2 La struttura dell'argomentazione teologica

Entrando ora nel merito delle spiegazioni elaborate dalla teologia per descrivere l'ispirazione ci chiediamo: queste teorie riescono effettivamente a descrivere il modo con cui è stato scritto il testo biblico? Riescono questi modelli a mostrare come Dio ne sia l'autore? E' facile avere l'impressione che queste spiegazioni perlomeno le prime tre che abbiamo considerato, siano molto astratte, formali, nel senso che funzionano a prescindere dal testo effettivo che abbiamo di fronte, per questo motivo potremmo applicarle a qualsiasi testo! Come potremmo infatti dire che la Bibbia e non 'I racconti di Gulliver', sono stati scritti da Dio se non entrando in merito ai contenuti del testo che, nel primo caso la fede riconosce come verità, mentre nel secondo riconosce come favola? Per riconoscere la Bibbia come parola di Dio occorre considerare i contenuti, ma le spiegazioni che ricorrono alla teoria dello strumento, della dettatura, dell'autore letterario e della struttura della chiesa... non prendono in considerazione il contenuto del testo. Osserviamo anche che era proprio a questo livello che si poneva la critica razionalistica quando motivava il suo scetticismo nei confronti della presunta verità della Bibbia osservando le incongruenze, i doppioni, gli errori storici e tutti gli elementi inverosimili... Se si fosse posta maggiore attenzione alla composizione del testo ci si sarebbe accorti della debolezza di queste spiegazioni. Cosa significa affermare che Dio agisce sull'agiografo, dettandogli le parole o agendo sulla sua intelligenza o volontà quando, ad esempio, nei salmi leggiamo una richiesta di perdono dei peccati? Oppure quando Paolo scrive di aver dimenticato il mantello (2Tm 4,13)? Non sembra dunque possibile sostenere che Dio sia l'autore del testo senza prendere in considerazione contemporaneamente anche la formazione dello scritto. In questo senso la teoria profetica, per quanto descritta approssimativamente, appare più persuasiva delle altre. In questo caso, infatti riusciamo a immaginare più concretamente il processo della formazione del testo ispirato da Dio in riferimento alla personalità del profeta-agiografo. Ed è proprio raccogliendo questi spunti che dovremo ripensare alla questione dell'ispirazione.

4.3 Nuovi percorsi

Alla luce delle osservazioni svolte, cerchiamo ora di riformulare il tema dell'ispirazione e quello della verità della Bibbia. Prima di iniziare a svolgere questo compito, dobbiamo però subito riconoscere che ci incamminiamo in un territorio ancora poco esplorato. Questo campo è infatti oggi poco frequentato sia dalla teologia che dall'esegesi. Non senza ragioni: la posta in gioco (la verità della Bibbia e quindi della fede che se ne nutre) e lo sviluppo storico del tema (tra le accuse del razionalismo e le difese dell'apologetica) fanno dell'ispirazione e dell'ermeneutica biblica una delle questioni teologiche più delicate. Inoltre non dobbiamo dimenticare che è proprio sul principio della Sola Scrittura che Lutero ha preso le distanze dalla chiesa cattolica criticandone la tradizione e il magistero. Lo scontro con Lutero ha lasciato nella  coscienza ecclesiale ufficiale il timore che quello che è accaduto con Lutero possa ripetersi ancora oggi, che cioè l'accostamento personale alla parola di Dio possa indurre possibili eresie o motivi di destabilizzazione della tradizione. Per questo, nonostante il concilio Vaticano II nella costituzione Dei Verbum abbia incoraggiato lo studio della Bibbia e la sua diffusione presso i credenti, la Bibbia resta ancora lontana dall'essere il libro della fede del cristiano. Queste considerazioni sono sufficienti per comprendere perché queste tematiche per quanto fondamentali, siano poco studiate: è un "campo minato" che difficilmente possiamo oltrepassare indenni. A proposito ci si limita a formulare affermazioni generiche, puramente retoriche, del tipo "nella Bibbia non c'è alcun errore, ma occorre interpretarla bene", oppure: "Il significato del testo appare dall'insieme del testo". Consigli buoni ma assolutamente insufficienti a guidare il credente nella lettura del testo. Con questo non pretendiamo assolutamente di risolvere queste questioni; più semplicemente, consapevoli della difficoltà del tema, cerchiamo di gettare uno sguardo o di compiere qualche passo oltre il territorio già conosciuto nella ricerca di una visione delle cose più convincente.

 

5. La questione dell'ispirazione

Iniziamo dalla questione dell'ispirazione e incominciamo con una riflessione sul termine "ispirazione". Finora lo abbiamo utilizzato senza alcuna puntualizzazione, come se il suo senso fosse ovvio, ma il peso che la tradizione magisteriale e teologica ha attribuito a questo termine impone una riflessione preliminare sul vocabolo. E' un termine troppo importante perché se ne possa parlare senza alcuna precisazione. Soffermiamo ci allora innanzitutto sul nome "ispirazione".

5.1 Scorribande sul termine

Etimologicamente, il termine "ispirazione" deriva dal latino in-spirare, un composto del verbo spiro, spirare. Il verbo contiene la stessa radice di spiritus che, prima ancora di essere attratto nel linguaggio religioso, significa "soffio", "aria", e da qui può significare "odore" o "esalazione" e, in quanto aria respirata, indica "respiro" e quindi "vita". In senso figurato spiritus significa "spirito" nel senso di "anima" o "spirito" dell'uomo; la sua parte migliore (in questo senso può significare "la migliore disposizione d'animo", "magnanimità", "coraggio") oppure la sua parte più espressamente virile o forte (e in questo senso significa "orgoglio", "arroganza", "presunzione"). Il verbo spirare raccoglie tutta questa gamma di sfumature e perciò può significare "soffiare"; "esalare" in riferimento agli odori "avere in sé l'aria" dunque "respirare", "vivere"; "spirare", non tanto nel senso che assume nella lingua italiana di "morire, spegnersi" quanto nel senso di un "uscire spirando" che dà vita, per questo spirare può significare anche "sgorgare" come nell'espressione di Ovidio "spirat pectore flamma". Ora, il composto di spirare, in-spirare, significa "spirare dentro", "soffiare dentro" nel senso dell'infondere il soffio, l'aria, lo spirito vitale. In-spirare può così significare anche "infondere" cioè "instillare", "iniettare", "mettere dentro" qualcosa che poi vive, è presente (un sentimento, ad esempio, ma anche il veleno di un serpente), oppure "destare" nel senso di risvegliare qualcosa che è già dentro (in-spirare). In conclusione, dal punto di vista etimologico, "ispirazione" sembra indicare un'esperienza nella quale è presente qualcosa di vitale, ma di inafferrabile come l'aria. E' qualcosa che sentiamo entrare in noi, come provenendo dall'esterno. Non ne conosciamo l'origine, ma sentiamo che in noi rafforza il nostro spirito, ci fa sentire più forti, più coraggiosi, al limite anche presuntuosi. Non ci appartiene eppure in noi incontra un'immediata accoglienza, quasi fosse da lungo attesa. La sua presenza risveglia in noi qualcosa che sembrava assopito... Il significato contenuto nell'etimo ritorna nell'uso quotidiano del termine. Così ci capita di dire, comunemente: "oggi sono ispirato" oppure "oggi mi sento ispirato", quando sentiamo che in noi affiorano senza alcuna fatica pensieri o immagini che si presentano in una loro forma piena, completa. Non sono solo dei frammenti, ma interi brani o componimenti che sembrano svelarsi davanti ai nostri occhi come se assistessimo a una rivelazione. In questo senso, infatti, diciamo di essere ispirati anche quando riusciamo a sciogliere un indovinello o un grattacapo con una semplicità che ci sorprende. Forse in precedenza non sapevamo da che parte girarci e ora, invece, all'improvviso, il nodo si scioglie, vediamo più chiaramente come stanno le cose. Troviamo con facilità la soluzione di problemi che stavamo affrontando senza riuscire a venirne fuori. Oppure, se stiamo camminando e non sappiamo quale strada prendere, sentiamo improvvisamente da quale parte andare, così, "per ispirazione". Questa esperienza è accompagnata da un profondo senso di benessere: ci sentiamo forti o intelligenti, in ogni caso capaci di affrontare la vita, vivi nella pienezza delle nostre forze. Ci sentiamo creativi. E' così infatti, "per ispirazione", che nascono le opere d'arte. Non è improbabile sentire affiorare anche un senso di riconoscenza verso l'origine misteriosa della nostra ispirazione, perché, lo sappiamo, c'è sempre "qualcosa" o "qualcuno" che ci ispira. Così diciamo, infatti, ad esempio: "Queste parole mi hanno ispirato...", oppure: "Non riesco a trovare la giusta ispirazione per iniziare questo compito". Come un soffio invisibile, trasparente come l'aria fresca, l'ispirazione nasce in noi senza rivelare la sua sorgente misteriosa e mai afferrabile. Apparentemente è una parola, un volto, un gesto... la fonte dell'ispirazione ma oltre quello che vedo e sento è qualcos'altro che suscita la mia ispirazione, qualcosa che incontra in me una risonanza particolare. Questa esperienza è confermata e ancor meglio descritta da coloro che normalmente riconosciamo come particolarmente ispirati: gli artisti o i poeti. Ecco, ad esempio, come Mozart descriveva l'esperienza della propria creatività:

Quando mi sento bene e di buon umore, sia in carrozza o a passeggio, o di notte quando non posso dormire, i pensieri si affollano nel più bel modo nella mia mente. Donde e come vengano io non lo so, né posso intravederlo. Le cose che mi si presentano le tengo a mente e le vedo mormorandole tra me e me. Se persisto qualche tempo, vengono a me uno dopo l'altro dei frammenti di materiale utile per il mio lavoro, accordi per il contrappunto, armonie per i diversi strumenti e così via. Allora ciò infiamma la mia anima, se non vengo disturbato. Poi l'idea va sviluppandosi e io seguito ad estenderla, a renderla più distinta e la cosa, per quanto lunga si fa invero quasi completa nella mia mente, di modo che io posso in seguito prenderne visione in spirito come di un bel quadro o di una bella persona, ed anche udirla con l'immaginazione, e ciò non successivamente come in seguito avrò da scriverla, ma nel suo insieme. L'invenzione e la costruzione si svolgono in me come in un bel sogno vibrato, L'invenzione mentale completa dell'insieme è sempre la parte migliore!

La fenomenologia dell'ispirazione potrebbe  continuare, ma gli elementi già emersi sono sufficienti per mettere in luce le caratteristiche principali di questa esperienza. Sembrano essere tre: l'origine misteriosa intravista in qualcosa che suscita una risonanza interiore, la visione o  rivelazione di un'idea e la creazione o composizione di qualcosa di nuovo.

5.2 L'ispirazione biblica: un approccio fenomenologico

Proviamo ora a ripensare l'ispirazione biblica aiutati da questi elementi. Propongo di concentrare la nostra attenzione sugli scritti del Nuovo Testamento. Questi testi nascono all'interno dell'annuncio apostolico che origina le prime comunità cristiane, dopo aver incontrato il Signore risorto e aver ricevuto il dono dello Spirito. Gesù ne aveva parlato in precedenza quando aveva detto:

Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. (Gv 14,16-17)

E aveva aggiunto:

Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (Gv 14,25-26)

Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l'annunzierà. (Gv 16,12-15)

I testi nascono dunque da una ricomprensione delle parole e dei gesti di Gesù, in particolare della sua passione e morte, sotto la guida dello Spirito Santo che conduce i discepoli alla verità tutta intera. In questo senso, grazie all'azione dello Spirito, i testi neotestamentari sono testi ispirati da Dio. Ma sarebbe errato - come peraltro molte delle spiegazioni che abbiamo considerato si trovano di fatto a sostenere - ridurre l'ispirazione a un intervento straordinario di Dio che rende gli agiografi improvvisamente capaci di comporre testi ispirati. Il dono dello Spirito Santo porta a compimento la comprensione dell'esperienza vissuta con Gesù. "Vi ricorderà ogni cosa", aveva detto Gesù. Se gli evangelisti non fossero stati in grado di ricordare, non avrebbero potuto comporre alcun testo ispirato. L'azione dello Spirito non sostituisce la necessità dell'esercizio memoriale del discepolo. Il testo biblico che noi possediamo come ispirato è il frutto dei ricordi dell'evangelista e dell'azione dello Spirito Santo. Per questo possiamo dire che l'esperienza dell'ispirazione non scaturisce dal dono pasquale dello Spirito Santo, ma nasce molto prima, nell'incontro tra Gesù e gli apostoli. Sono innanzitutto le parole e i gesti di Gesù, entrando in risonanza con il vissuto interiore degli uomini che incontra, a ispirare i pensieri e le azioni dell'apostolo, svelandogli la visione di un mondo nuovo, abitato dalla presenza del Padre. I testi evangelici sono ispirati perché portano impressa, ricompresa nella luce dello Spirito Santo, la memoria di questo incontro e di questa visione che è all'origine della fede apostolica. Contemporaneamente possiamo dire che i testi sono anche il frutto della creatività dell'agiografo che, ispirato dalla memoria dell'incontro col maestro rischiarata dalla luce dello Spirito, ha composto i testi con la propria sensibilità provocata certamente dal contesto all'interno del quale si trovava. In questo modo si spiegano le differenze tra gli evangelisti anche quando raccontano gli stessi episodi. Su queste premesse, se questa interpretazione dell'esperienza dell'ispirazione è plausibile, è allora possibile ricostruire con più precisione il processo ispirato di formazione dei testi neotestamentari. Qui mi limito a segnalare i tre passaggi che dovrebbero essere sviluppati:

1) il primo momento di questo processo alla quale viene infine ricondotta la "scrittura della rivelazione" (il canone) deve essere ravvisato nella chiamata dei discepoli da parte di Gesù, chiamata che, iniziata presso i villaggi della Galilea, giunge a compimento con il dono pasquale dello Spirito. L'ispirazione si presenta qui nella forma della chiamata dei discepoli a stare con Gesù imparando da lui, il Maestro. L'approdo sintetico delle istruzioni date da Gesù agli apostoli è rappresentato dalla celebrazione dell'ultima cena. Questo momento rappresenta la consegna ultima e insuperabile di tutta la testimonianza di Gesù del volto di Dio. Il comando ("fate questo in memoria di me") ha esattamente lo scopo di custodire questo memoriale e questo, appunto, custodiscono e trasmettono i discepoli.

2) Il secondo momento deve essere ravvisato nella cura degli apostoli per custodire la rivelazione, dopo la Pasqua di Gesù. E' un momento caratterizzato dalla formazione, dal consolidamento, dalla rielaborazione del ricordo del Signore, sorretto dall'azione dello Spirito Santo, dono pasquale. Tutto questo avviene secondo precise istruzioni lasciate dal Signore ai suoi apostoli. Si tratta di istruzioni che comprendono l'ermeneutica della tradizione dell'antica alleanza; la rielaborazione evangelica dei temi legati al culto e alla morale; l'orientamento specifico delle condizioni della sequela e del discepolato... In questo secondo momento, affiora nella comunità cristiana anche la consapevolezza che nessuno se non l'apostolo è autorizzato a custodire e trasmettere la rivelazione: questa cura è possibile solo a quanti hanno effettivamente condiviso con Gesù il tempo della sua apparizione sulla scena di questo mondo. Nasce così la figura del successore degli apostoli: viene cioè istituzionalizzata la figura dell'apostolo (già istituita dal Signore lungo la sua vita terrena) nella figura del suo successore. Al vescovo, successore dell'apostolo, spetta il compito della cura del vangelo e della sua corretta interpretazione.

3) Il terzo momento è quello della celebrazione rituale. Al riconoscimento del canone concorre infatti la celebrazione rituale come luogo della celebrazione del memoriale eucaristico. E' all'interno del contesto rituale che la predicazione, dapprima svolta nella forma dell'interpretazione delle Scritture antiche, inizia a comporre brevi formule di fede (inni cristologici o formule trinitarie), sviluppando quindi nuovi testi narrativo-parenetici. L'esito di questo sviluppo è proprio la raccolta di testi che chiamiamo canone.

 

6. La questione ermeneutica

Consideriamo a questo punto il problema ermeneutico. Si tratta di interrogarci circa la verità del testo biblico. Abbiamo visto finora come là verità del testo sia stata affermata in riferimento alla sua origine ispirata e sia stata precisata come verità che concerne la nostra salvezza. Sono, queste, osservazioni importanti che, però, dicevamo, sorvolano sulla composizione effettiva dei testi. In che modo l'uomo incontra effettivamente questa verità nella lettura del testo? Questa domanda attende una risposta e fintanto che resta disattesa la pretesa verità del testo biblico non può altrimenti essere affermata se non in forza di un principio d'autorità. Ma questa argomentazione, dicevamo, delude non solo il razionalista, ma anche il credente che non riconosce nel testo biblico la verità della sua fede, semplicemente accetta di credere che sia così. Cerchiamo ora di entrare in merito dell'argomento prendendo come punto di partenza quella analogia tra la scrittura e l'incarnazione che non ha ancora trovato un'adeguata attenzione da parte della teologia.

6.1 L'analogia con l'Incarnazione

Abbiamo già citato i testi dell'enciclica Divino Afflante Spiritu e della Dei Verbum che parlano dell'ispirazione servendosi dell'analogia con il mistero dell'incarnazione. Questa analogia intende affermare che come Gesù non commise alcun peccato, così nel testo non troviamo alcun errore. Seppure la lettera, come la carne umana, non riesca ad esprimere pienamente il mistero di Dio, in ogni caso non troviamo degli errori, come in Gesù non troviamo peccati. Questo è il significato immediatamente inteso dai testi magisteriali. L'analogia potrebbe essere approfondita: ricordando che il mistero dell'Incarnazione è il mistero di un Dio che diventa uomo cosicché in Gesù noi realmente ci imbattiamo in Dio, l'analogia ci suggerisce che aprendo la Scrittura noi ci incontriamo realmente con la presenza di Dio. Incontrando Gesù gli uomini hanno incontrato il Figlio di Dio, leggendo la Scrittura noi incontriamo realmente la Parola di Dio. Così, il mistero della parola di Dio in parole umane non significa semplicemente che leggendo queste parole umane possiamo imbatterci in una parola di Dio che sta nascosta misteriosamente oltre queste parole umane, bensì significa che tale parola di Dio si rivela proprio in queste parole umane. In questo senso, giustamente diciamo che il testo biblico è parola di Dio perché le parole del testo non solo contengono la parola di Dio, ma sono esse stesse "Parola di Dio". Questo è il senso positivo inteso dall'analogia. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che ogni analogia, per quanto appropriata possa sembrare, rappresenta sempre soltanto un paragone ("come... così...") che non identifica mai le due realtà che vengono confrontate. In questo senso dobbiamo riconoscere che il Figlio incarnato non coincide con la Scrittura ispirata. E se, con l'evangelista Giovanni, chiamiamo "Logos", cioè Parola di Dio, il Figlio di Dio allora dobbiamo riconoscere che il testo biblico non è parola di Dio, cioè la Parola di Dio (il Logos) non coincide semplicemente con la materialità del testo. Il Figlio incarnato non si identifica semplicemente con il testo. In questo senso, la Parola di Dio (Gesù) non coincide semplicemente con la Scrittura: nel testo la Parola di Dio deve essere cercata e può essere trovata. Dunque, da un lato, in quanto traccia dell'impronta di Dio nella storia, del passaggio di Dio tra gli uomini, che gli evangelisti (e gli autori veterotestamentari) come "profeti" hanno raccontato, la Parola di Dio (la Bibbia) è ispirata e assolutamente singolare rispetto a qualsiasi altra parola umana: nessuna altra parola ecclesiastica può pretendere di consegnarci il volto di Dio meglio del testo biblico. E perciò giustamente la teologia riserva il termine "ispirazione" ai testi biblici. Dall'altro lato, però, più singolare nel dirci la verità di Dio è l'evento cristologico che trae ispirazione dal rapporto tra Gesù e il Padre, questo deve essere cercato e può essere trovato nella Bibbia. Ora, eseguire questa ricerca significa trovare la verità del testo e questo è compito dell'ermeneutica.

6.2 L'ermeneutica biblica

Quando parliamo di ermeneutica biblica intendiamo riferirci alla riflessione che definisce le condizioni che ci consentono di cogliere la verità del testo. E, se verità della Bibbia, è Gesù, allora lo sforzo dell'ermeneutica biblica è quello di definire le coordinate entro le quali permettermi di incontrarmi con lui. Questa preoccupazione ha sempre accompagnata la lettura della Bibbia nella Chiesa, per questo essa dispone di un enorme patrimonio di criteri interpretativi ultimamente raccolti e commentati in un documento della Pontificia Commissione biblica, dal titolo "L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa" (1993). I criteri formulati in questi testi attingono abbondantemente dalla tradizione della lettura della Scrittura nella Chiesa. Il documento ci invita a distinguere, innanzitutto, due livelli di lettura del testo: quello letterale e quello spirituale.

a) Il livello letterale

Questo primo livello di senso consiste nella definizione del significato dei testi come sono stati composti dai loro autori, significato che è chiamato "letterale". Avendo gli agiografi scritto il testo ispirati da Dio, questo senso letterale contiene anche quanto vuole Dio stesso, vero Autore principale del testo. Per questo la parola di Dio si manifesta anche in questo livello di senso. E, per questo, conseguentemente, è importante definire questo primo livello di senso. Il senso letterale può essere raccolto investigando il contesto letterario e storico entro cui un testo è nato. Comprendendo meglio le circostanze della composizione di un testo, comprendiamo meglio anche l'agire di Dio nella storia.

Questo senso letterale non deve essere confuso con il letteralismo tipico dei fondamentalisti. Un esempio può chiarire la distinzione. "Abbiate la cintura ai fianchi" (Lc 12,35): l'interpretazione letterale coglie il significato metaforico e interpreta queste parole come l'invito a essere pronti; l'interpretazione fondamentalista, invece, interpreta queste parole come un invito a mettere in pratica alla lettera quanto affermano. La lettura fondamentalista ha le sue origini nella rivendicazione della Riforma del principio sola Scriptura e nella preoccupazione di essere fedeli al senso letterale della Scrittura. Questa preoccupazione si ripresenta nel protestantesimo dopo l'illuminismo, contro gli esiti dell'esegesi liberale. Il termine "fondamentalista" si collega direttamente al Congresso biblico Americano tenutosi a Niagara, nello stato di New York, nel 1895. Il fondamentalismo insiste sull'inerranza del testo biblico anche nei più piccoli dettagli specialmente nel campo dei fatti storici o scientifici.

b) Il livello spirituale

Possiamo definire "spirituale" il senso espresso dai testi biblici quando questi vengono letti nel contesto del mistero pasquale di Cristo, ovvero nel contesto storico radicalmente nuovo, inaugurato da Gesù Cristo e dal dono dello Spirito Santo. L'evento pasquale realizza, infatti, un contesto nuovo, vivificato e illuminato dallo Spirito che insegna ai credenti a rileggere le Scritture antiche, ora giunte a compimento. E' in questo senso, appunto "spirituale" o cristologico, che vengono ora scoperti e riconosciuti in tutta la loro ampiezza i passi messianici. Questa lettura spirituale delle Scritture non deve dunque essere confusa con un'interpretazione allegorica o semplicemente soggettiva, frutto dell'immaginazione: essa nasce sempre dalla relazione tra il testo (considerato con attenzione), il mistero pasquale e le circostanze presenti nella vita spirituale. La lettura spirituale corretta rispetta sempre il testo originario e il suo senso letterale (non lo considera mai solo come un pre-testo per ulteriori riflessioni); lo riprende e, alla luce del mistero di Cristo, ne scopre potenzialità inesplorate. Un testo del concilio Vaticano II esplicita le coordinate all'interno delle quali cercare il senso spirituale di un testo:

Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa la qual adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio. (DV 12)

Esplicitando il testo, ecco le coordinate del senso spirituale:

- l'interezza della Scrittura, dunque l'unità tra AT e NT (principio patristico del leggere la Bibbia con la Bibbia);

- l'ascolto della Tradizione della Chiesa, una tradizione definita "viva", dunque fatta di preghiera, carità, vita comunitaria...;

- l'analogia della fede che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce: "coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della rivelazione" (n.114);

- il giudizio del Magistero che "non sta sopra la parola di Dio" (DV 10) ma svolge un compito interpretativo nei suoi confronti.

 

 

Appendice 1: Il commento di sant'Agostino al capitolo 11 del Vangelo di Giovanni condotto secondo i canoni dell'esegesi patristica

1. Fra tutti i miracoli compiuti da nostro Signore Gesù Cristo, quello della risurrezione di Lazzaro è forse il più strepitoso. Ma se consideriamo chi è colui che lo ha compiuto, la nostra gioia dovrà essere ancora più grande della meraviglia. Resuscitò un uomo colui che fece l'uomo; Egli infatti è l'unigenito del Padre, per mezzo del quale, come sapete, furono fatte tutte le cose. Ora se per mezzo di lui furono fatte le cose, fa meraviglia che per mezzo di lui sia resuscitato uno, quando ogni giorno tanti nascono per mezzo di lui? E' cosa più grande creare gli uomini che resuscitarli. Tuttavia egli si degnò creare e risuscitare: creare tutti e risuscitare e alcuni. Infatti, benché il Signore Gesù abbia compiuto molte cose non tutte sono state scritte; lo stesso San Giovanni evangelista afferma che Cristo Signore disse e fece molte che non furono scritte ma furono scelte quelle che si ritenevano sufficienti per la salvezza dei credenti. Tu hai udito che il Signore Gesù risuscitò un morto: ciò ti basti per convincerti che se avesse voluto, avrebbe potuto risuscitare tutti i morti. Del resto si è riservato di far questo alla fine del mondo; poiché verrà l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce e ne usciranno; cosi dice colui che, come avete sentito, con un grande miracolo risuscitò uno che era morto da quattro giorni. Egli risuscitò un morto in decomposizione; ma benché in tale stato, quel cadavere conservava ancora la forma delle membra. Nell'ultimo giorno, ad un cenno, ricostituirà il corpo dalle ceneri. Ma bisognava che intanto compisse alcune cose, che a noi servissero come segni della sua potenza per credere in lui, e prepararci a quella risurrezione che sarà per la vita, non per il giudizio. [...]

Osserviamo il senso letterale da cui il commento di Agostino prende le mosse: egli inizia, infatti, parlando della morte reale di Lazzaro e della resurrezione cui tutti siamo chiamati.

2. Apprendiamo dal Vangelo che tre sono i morti risuscitati dal Signore, è ciò non senza un significato. Sì, perché le opere del Signore non sono soltanto dei fatti, ma anche dei segni. E se sono dei segni, oltre ad essere mirabili devono pur significare qualcosa; e trovare il significato di questi fatti è alquanto più impegnativo che leggerli o ascoltarli. Abbiamo ascoltato il Vangelo che racconta come Lazzaro riebbe la vita, pieni d'ammirazione come se quello spettacolo meraviglioso si svolgesse davanti ai nostri occhi. Se però rivolgiamo la nostra attenzione ad opere di Cristo più meravigliose di questa ci rendiamo conto che ogni uomo che crede risorge; se poi riuscissimo  comprendere l'altro genere di morte molto più detestabile, (quello cioè spirituale), vedremo come ognuno che pecca muore. Se non che tutti temono la morte del corpo, pochi quella dell'anima. Tutti si preoccupano per la morte del corpo che prima o poi dovrà venire, e fanno di tutto per scongiurarla. L'uomo destinato a morire si dà tanto da fare per evitare la morte, mentre non altrettanto si sforza di evitare il peccato l'uomo che pure è chiamato a vivere in eterno. Eppure quanto fa per non morire, lo fa inutilmente al più ottiene di ritardare la morte, non di evitarla. Se invece si impegna a non peccare, non si affaticherà, e vivrà in eterno. Oh, se riuscissimo a spingere gli uomini, e noi stessi insieme con loro, ad amare la vita che dura in eterno almeno nella misura che gli uomini amano la vita che fugge! Che cosa non fa uno di fronte al pericolo della morte? Quanti, sotto la minaccia che pendeva sul loro capo hanno preferito perdere tutto pur di salvare la vita! Chi infatti non lo farebbe per non essere colpito? E magari; dopo aver perduto tutto, qualcuno ci ha rimesso anche la vita. Chi pur di continuare a vivere, non sarebbe pronto a perdere il necessario per vivere, preferendo una vita mendicante ad una morte anticipata? Se si dice a uno: se non vuoi morire devi navigare, esiterà forse a farlo? Se a uno si dice: se non vuoi morire devi lavorate, si lascerà forse prendere dalla pigrizia? Dio ci comanda cose meno pesanti per farci vivere in eterno, e noi siamo negligenti nell'obbedire. Dio non ti dice: getta via tutto ciò che possiedi per vivere poco tempo tirando avanti stentatamente; ti dice: dona i tuoi beni ai poveri se vuoi vivere eternamente nella sicurezza e nella pace. Coloro che amano la vita terrena, che essi non possiedono né quando vogliono né finché vogliono, sono un continuo rimprovero per noi; e noi non ci rimproveriamo a vicenda per essere tanto pigri, tanto tiepidi nel procurarci la vita eterna, che avremo se vorremo e che non perderemo quando l'avremo. Invece questa morte che temiamo, anche se non vogliamo, ci colpirà.

Secondo il principio dell' interpretare la Bibbia con la Bibbia, Agostino stabilisce un confronto tra i testi che trattano lo stesso tema. Il confronto gli suggerisce il parallelo tra morte/peccato; conversione/vita.

3. Se dunque il Signore, per sua grande grazia e misericordia risuscita le anime affinché non si muoia in eterno, ben possiamo supporre che quei tre che egli risuscitò nei loro corpi significano e adombrano la risurrezione delle anime che si ottiene mediante la fede. Risuscitò la figlia del capo della sinagoga che si trovava ancora in casa, risuscitò il giovane figlio della vedova, che era già stato portato fuori della città; risuscitò Lazzaro, che era stato sepolto da quattro giorni. Esamini ciascuno la sua anima: se pecca muore, giacché il peccato è la morte dell'anima. A volte si pecca solo col pensiero: ti sei compiaciuto di ciò che è male, hai acconsentito, hai peccato; il consenso ti ha ucciso; però la morte è solo dentro di te, perché il cattivo pensiero non si è ancora tradotto in azione. Il Signore, per indicare che egli risuscita tal sorta di anime, risuscitò quella fanciulla che ancora non era stata portata fuori, ma giaceva morta in casa, a significare il peccato occulto. Se però non soltanto hai ceduto al male, ma lo hai anche tradotto in opere, è come se il morto fosse uscito dalla porta; ormai sei fuori e sei un morto portato alla sepoltura. Il signore tuttavia risuscitò anche quel giovane e lo restituì a sua madre vedova. Se hai peccato, pentiti! E il Signore ti risusciterà e ti restituirà alla chiesa che è la tua madre. Il terzo morto è Lazzaro. Siamo di fronte al caso più grave, che è l'abitudine perversa. Una cosa infatti è peccare, un altra, è contrarre l'abitudine al peccato. Chi pecca, ma subito si emenda, subito riprende a vivere, perché non è ancora prigioniero dell'abitudine, non è ancora sepolto. Chi invece pecca, abitualmente, è già sepolto, e ben si può dire che già, mette fetore, nel senso che la cattiva fama che si è fatta comincia a diffondersi come un pestifero odore. Così sono coloro che ormai sono abituati a tutto e rotti ad ogni scelleratezza. Inutile dire a uno di costoro: non fare cosi! Come fa a sentirti chi è come sepolto sotto terra, corrotto, oppresso dal peso dell'abitudine? Né tuttavia la potenza di Cristo è incapace di risuscitare anche uno che è ridotto così. Abbiamo conosciuto, abbiamo visto e ogni giorno vediamo uomini che, cambiate le loro pessime abitudini, vivono meglio di altri che li rimproveravano. Tu, ad esempio, avevi molto da ridire sulla condotta del tale: ebbene, guarda la sorella stessa di Lazzaro [...]; la sua risurrezione è più prodigiosa di quella del fratello, perché è stata liberata dal grave peso dei suoi cattivi costumi inveterati. Era infatti una famosa peccatrice, e di lei il Signore, disse: Le sono rimessi molti peccati, perché ha amato molto. Abbiamo visto e conosciamo molti di questi peccatori: nessuno disperi, nessuno presuma di sé. E' male disperare, ed è male presumere di sé. Non disperare e scegli dove poter collocare la tua speranza.

A questa punto Agostino sviluppa compiutamente il senso spirituale traendo spunto da un confronto tra i testi. Notiamo come l'interpretazione spirituale sia possibile solo richiamando l'esperienza di fede. Il commento, quindi, intreccia, l'esperienza di fede (dunque la condizione del cristiano) ed il testo.

 

Appendice 2: il commento di R.E. Brown al capitolo 11 del Vangelo di san Giovanni condotto con il metodo storico-critico.

Non c'è dubbio che il materiale dei capp. 11-12 proviene da circoli giovannei, poiché abbonda di aspetti tipicamente giovannei (personaggi come Tommaso, Filippo e Andrea; ego eimi  in 11,25; fraintendimento in 11,11-14; il tema dell'essere "innalzato" in 12,32; molte parole del vocabolario giovanneo, ecc.). Tuttavia, nell'uso del termine "i giudei" questi capitoli differiscono notevolmente da quel che abbiamo visto nei capp. 1-9. In 11,19.31.33.36.45; 12,9.11, i giudei non sono le autorità giudaiche ostili ma la gente comune della Giudea e di Gerusalemme, che spesso mostra simpatia per Gesù e persino crede in lui.

Il commento prende le mosse dall'analisi linguistica condotta sul testo: tale analisi ravvisa conformità ma anche incongruenze con l'insieme del vangelo.

Abbiamo visto questa peculiarità in 8,31, un versetto che mostrava tutti i segni di essere un'aggiunta redazionale, ed è possibile che i capp. 11-12 siano un'aggiunta fatta nello stesso stadio della redazione.

A partire dal dato l'esegeta avanza un'ipotesi: si tratta di un elemento redazionale.

Un argomento anche più convincente può essere tratto dalla sequenza in cui appare ora il miracolo di Lazzaro. Esso è collocato tra la festa d'inverno della Dedicazione (10,22) e la festa primaverile di Pasqua (11,55), con un accenno in questo ultimo versetto, che il miracolo ebbe luogo verso la fine di questo intervallo di tre o quattro mesi. Se seguiamo questa sequenza, dobbiamo supporre che Gesù lasciasse il suo ritiro nella Transgiordania, salisse a Betania, e poi dopo il miracolo si ritirasse di nuovo a Efraim presso il deserto (11,54). Successivamente egli sarebbe ritornato a Betania sei giorni prima di Pasqua (12,1), solo per andare a nascondersi di nuovo dopo un unico giorno di predicazione in Gerusalemme (12,36). Questa complicata sequenza si concilia difficilmente con il quadro sinottico in cui prima di Pasqua Gesù si recò dalla Transgiordania, passando per Gerico, a Gerusalemme, prendendo domicilio a Betania. Abbiamo messo in rilievo, a p.541., che sarebbe molto più facile conciliare la sequenza in Giovanni con quella dei sinottici se non si considerassero i capp. 11-12.

A questo punto viene verificata l'ipotesi: attraverso il confronto con la sequenza sinottica si ravvisa l'intervento dell'evangelista.

Il problema della sequenza diventa ancor più difficile se ci rendiamo conto che Giovanni fa del miracolo di Lazzaro la causa diretta della morte di Gesù perché esso provoca una seduta del Sinedrio (11,46-53) che giunge alla decisione di uccidere Gesù. Il tema del miracolo di Lazzaro si trova anche nell'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme (12,9-11). Quello che più sorprende in tutto ciò è che i sinottici non sanno nulla di Lazzaro. Essi descrivono molto più minuziosamente di Giovanni i giorni precedenti la morte di Gesù, i discorsi che egli fece nei cortili del Tempio, e la seduta del Sinedrio; ma non parlano della resurrezione di Lazzaro. Come si può spiegare una tale discrepanza, se il miracolo di Lazzaro accadde nella sequenza in cui Giovanni lo ha collocato?

Il confronto con i sinottici evocato per spiegare la collocazione dell'episodio nel vangelo di Giovanni, solleva un problema ulteriore: come possono i sinottici aver dimenticato un episodio di tale importanza?

Alcuni studiosi risolvono il problema suggerendo l'ipotesi che l'episodio della resurrezione di Lazzaro sia una composizione di fantasia basata su materiale sinottico (vedi Richardson p. 139). Si suppone che il racconto giovanneo abbia tratto la sua ispirazione dal racconto lucano della resurrezione del figlio della vedova di Nain (7,11-16), e si pensa che i personaggi giovannei siano stati ispirati dall'episodio lucano di Marta e Maria (10,38-42) e dalla parabola lucana di Lazzaro (16,19-31). [...] A titolo di obiezione generale contro tale proposta, notiamo che essa presuppone un approccio al problema della tradizione giovannea che non abbiamo riscontrato efficace altrove nel Vangelo, e precisamente l'ipotesi che Giovanni non contenga tradizione storica indipendente ma dipenda un rimaneggiamento di dettagli sinottici. [...]

A questo punto vengono ascoltate e commentate spiegazioni formulate da altri esegeti.

Dai contenuti del racconto giovanneo, poi, non c'è alcuna ragione decisiva per presumere che lo scheletro dell'episodio non provenga da una tradizione primitiva intorno a Gesù. Quel che suscita dubbio è l'importanza che Giovanni attribuisce alla resurrezione di Lazzaro come causa della morte di Gesù. Noi pensiamo che qui ci sia un altro esempio del genio pedagogico del Quarto Vangelo. I Vangeli sinottici presentano la condanna di Gesù come una reazione a tutto il suo ministero e a tutte le cose che egli aveva dette e fatte. Nell'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, ci viene detto in Lc 19,37 che, con grande malcontento dei farisei, la folla lodava Gesù per "tutti i prodigi che avevano veduti". Il Quarto Vangelo non si contenta di questa generalizzazione. Non è abbastanza drammatico né abbastanza incisivo dire che tutti i miracoli di Gesù portarono all'entusiasmo da parte di alcuni e all'odio da parte di altri. E così lo scrittore ha preferito prendere un solo miracolo e fare di questo il rappresentante primario di tutti i potenti miracoli di cui parla Luca. Con un mirabile senso dello sviluppo egli ha scelto un miracolo in cui Gesù risuscita un morto. [...] Noi pensiamo dunque che, mentre l'episodio di base che sta dietro al racconto di Lazzaro può provenire da una tradizione primitiva, il suo  rapporto causale con la morte di Gesù sia più una questione di intenzione pedagogica e teologica giovannea che di reminiscenza storica; e ciò spiega perché tale connessione causale non si trova nella tradizione sinottica. Il racconto di un miracolo che veniva in origine tramandato senza un contesto fisso o una sequenza cronologica fissa è stato usato, in uno degli stadi più tardi della composizione giovannea, come conclusione del ministero pubblico di Gesù. Come abbiamo accennato nell'Introduzione (p. XXXIX), questa aggiunta può essere avvenuta nella seconda edizione del Vangelo da parte dell'evangelista o, più probabilmente, nella redazione finale... [...]

Scartate le spiegazioni addotte, l'esegeta avanza la sua ipotesi cercando di rispondere diversamente alle difficoltà ravvisate in precedenza: si tratta di un materiale tradizionale qui inserito dal redattore.