L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

L'uomo Parola di Dio

 

 

L’assoluto e il nulla

 

La domanda ultima che ci ponevamo è questa: se questo orizzonte alla luce del quale noi tutto conosciamo, noi tutto sperimentiamo, questo orizzonte sconfinato - nel quale noi siamo immersi e che è la misura sulla quale tutto misuriamo per poter appunto dichiarare che la realtà finita è finita - se questo orizzonte è solo un pensato, una proiezione dei nostri desideri o è qualche cosa di reale. La risposta molto breve, non so se è naturalmente sufficiente per persuadere della sua fondatezza, era che questo orizzonte dal quale noi attingiamo questa idealità infinita, questa spinta verso traguardi che si spostano sempre più in là man mano che noi ci avviciniamo, questa spinta siamo noi concretamente. Questo orizzonte che nutre e sostiene in noi questa tensione, che noi siamo, perché noi siamo questa sete di infinito, questa inquietudine che non trova pace in nessuna realtà finita, se questo orizzonte, dal quale si sprigiona questo dinamismo, che è l’essenza della nostra vita, quella che modifica veramente la nostra vita umana, se questo orizzonte è nulla, allora quello che attira la nostra vita, quello che la sostiene, la muove, la fonte che ne determina tutta quanta la tensione, è nulla. La nostra vita non è nulla; Il nulla non fa nulla. Il niente è niente. Noi spesso parliamo del niente come se fosse qualche cosa; ma niente è niente. Ora se tutto il dinamismo della nostra vita, se tutto lo slancio che noi siamo è sospeso al nulla, allora noi siamo nulla; ma se non mi sembra che noi siamo nulla, allora è da supporre che questo orizzonte non sia solo da noi pensato, ma sia veramente reale, che questo orizzonte rinvii veramente a qualche cosa di reale, segnali una realtà che non può non essere immensa, dell’immensità dell’orizzonte che veramente incorpora, porta in sé in potenza l’infinitezza dell’orizzonte. E’ molto difficile esprimersi, pensare queste cose. Non è un argomentare astratto, avulso dall’esperienza. Noi siamo veramente così impastati di questa tensione verso l’infinito che per noi le realtà, i valori fondamentali di per sé non comportano limite; nel modo con cui noi li intravediamo, li sogniamo perché certo noi li riscontriamo sempre finiti nella realtà, li pensiamo, per noi questi valori supremi non hanno limite; per esempio la vita, in un certo senso il valore che ingloba tutti i valori, noi la incontriamo sempre come una vita che è già tutta intrisa del suo contrario, la morte, perché la nostra vita concreta, come la vediamo intorno a noi, non è vita pura, limpida, cristallina, è purtroppo sempre venata, intrisa della negatività della morte.

S. Agostino dice giustamente che la nostra vita è in realtà una morte prolissa, si comincia a morire nel momento in cui si comincia a vivere e poi la vita è piena di segnali di morte: le nostre frustrazioni, i nostri condizionamenti, i nostri fallimenti, piccoli e grandi, i mali che incontriamo sono sintomi, annunci di morte. Di fronte a questa vita che cosa diciamo noi talvolta quando non ne possiamo più: questa non è vita! Cosa vuoi dire questo? Questo vuol dire che si ha nel cuore - e di riflesso nella testa, nell’esperienza vissuta, permeata da questa idealità, di infinito - un’idea di vita senza condizionamenti, limiti, negatività; la vita per noi idealmente dovrebbe essere vita e soltanto vita, in un crescendo trionfale, in uno sviluppo che non conosce battute di arresto, regressioni, declino, alla fine inarrestabile.

La vita che sperimentiamo è purtroppo tutta combattuta dal contrario della vita; ma noi avvertiamo - secondo un istinto non bruto, ma posto in noi dall’ apertura ad un orizzonte infinito che ci attrae,- che la vita dovrebbe essere vita in pienezza. Che cos’è questa vita al quaranta per cento, e alla fine allo zero per cento? Che vita è? Condannati a una vita così limitata noi ci rassegniamo, portiamo però dentro questa consapevolezza che la vita di per sé dovrebbe essere ben diversa. E’ lo stesso per qualsiasi altro valore.

L’amore per esempio. Vita e amore si richiamano in maniera molto potente: la vita è per l’amore; la vera vita consiste nell’amore, e l’amore è il fenomeno vitale più alto, dovrebbe essere soltanto amore, e invece noi non lo incontriamo mai in questa purezza, radicalità e totalità; anche la persona più buona, più cara a un certo punto ti delude, ti lascia veramente con l’amaro in bocca o nel cuore; siamo rassegnati a questo ma, eppure sentiamo che l’amore è qualche cosa di per sé di infinito, che non comporta in se stesso dei limiti e se abbiamo un sogno nel cuore è quello di un amore che sia solo amore, splendore veramente incontenibile di amore.

Ma da dove nasce in noi questa dimensione di infinito che contrassegna tutti i valori come l’aspetto più tipico (vita, amore, bellezza....), il fatto che a tutto quello che noi sperimentiamo condizionato fortemente segnato dalla negatività, noi attribuiamo secondo questo nostro slancio ideale, una dimensione di infinito per cui l’amore, la vita, la bellezza finita non ci lasciano soddisfatti.

Siamo fatti così; a tal punto che l’uomo anche quando vuole rifiutare l’assoluto reale segnalato da questo orizzonte infinito, in realtà assolutizza qualche cos’altro che non è l’assoluto, perché è tutto percorso da questo desiderio di infinito e di assoluto. L’assoluto per l’uomo sarà la razza, il sesso, il successo, il denaro, il potere, la sicurezza nazionale. Noi perseguiamo tutto sempre secondo questa carica di assoluto. Tendenzialmente noi cerchiamo di cogliere, di inquadrare tutto secondo coordinate di assoluto. Allora, se veramente l’uomo è questa tensione viva verso l’assoluto, volete che l’assoluto sia proprio un niente? Non può essere niente. Questa può sembrare una spiegazione rudimentale, ma ha il pregio di rifarsi all’esperienza.

 

O Dio, ci hai fatti per te

(su tua misura, secondo le tue dimensioni, in modo che solo in te possiamo avere il nostro destino, perché tu sei il modello sul quale noi siamo stati impostati, la tua infinitezza, la tua immensità, questa tua pienezza sconfinata, in tensione verso quel modello che è il tuo essere infinito, tu ci hai fatti)

e inquieto è il nostro cuore, finché in te non riposa.  (S. Agostino, Confessioni)

(cerca di trovare appagamento quaggiù, ma in quell’attimo felice in cui pare di essere completamente realizzati - attimo che Faust (Goethe) voleva fermare per sempre, eternizzare - questo attimo ci sfugge e ci riconduce alla nostra finitezza,ci fa ripiombare nella nostra piccolezza dalla quale costantemente tendiamo verso un qualche cosa, un qualcuno, che veramente accogliendoci in sé, possa placare questa nostra sete.)

 

 

Dio distante e intimo

 

L’assoluto, l’infinito non solo pensato, ma reale, questo mistero della nostra vita che noi chiamiamo Dio (questa è la parola a nostra disposizione, ma potrebbe essere un’altra), è immensamente al di sopra di noi, nella sua maestà e sovranità, così lontano da noi e insieme - proprio perché alla luce di questo orizzonte infinito che a noi si dischiude, perché siamo stati fatti a immagine e somiglianza dell’immensità di questo orizzonte - così a noi vicino, intimo, familiare.

Il rapporto con l’assoluto, con 1’immenso, con l’infinito, questo tendere verso, perché si viene da questo infinito, è talmente costitutivo per l’uomo, che in altre culture la tendenza era di dire che l’uomo coincide veramente con l’infinito: l’assoluto è l’uomo. Ora l’uomo non è l’assoluto, perché se noi fossimo l’infinito e l’assoluto non avremmo fame e sete di valori, non ci sentiremmo tormentati da questa continua inquietudine, non saremmo questo ebreo errante, che non si dà pace; noi non siamo l’assoluto; qui tutto l’idealismo tedesco ha fatto naufragio. Hegel ha fatto un piccolo enorme errore, che è quello di dire: l’uomo è lo spirito assoluto che diviene nella storia umana.

Il rapporto con l’assoluto, con 1’immenso, con l’infinito, questo tendere verso, perché si viene da questo infinito, è talmente costitutivo per l’uomo, che in altre culture la tendenza era di dire che l’uomo coincide veramente con l’infinito: l’assoluto è l’uomo. Ora l’uomo non è l’assoluto, perché se noi fossimo l’infinito e l’assoluto non avremmo fame e sete di valori, non ci sentiremmo tormentati da questa continua inquietudine, non saremmo questo ebreo errante, che non si dà pace; noi non siamo l’assoluto; qui tutto l’idealismo tedesco ha fatto naufragio. Hegel ha fatto un piccolo enorme errore, che è quello di dire: l’uomo è lo spirito assoluto che diviene nella storia umana.

No, l’uomo non è lo spirito assoluto. Ma non è essenziale per l’uomo essere l’assoluto, l’infinito; affermare questo è tradire tutta quanta la nostra esperienza, che ci proclama ad ogni passo il nostro limite; aveva ragione Kierkegaard a dire ad Hegel: la tua costruzione è magnifica, però l’uomo non vi si può trovare a suo agio; è come un castello fatato, che non è abitabile dall’uomo con la sua concretezza, saturata anche di miseria. Non è essenziale per l’uomo essere l’assoluto ma è essenziale per l’uomo il rapporto con l’assoluto. Questo noi siamo, rapporto con l’assoluto. La dimensione profonda dell’uomo è questo rapporto con l’assoluto. L’uomo affonda le radici in questo assoluto e insieme è tutto proiettato verso questo assoluto.

E’ veramente strano questo uomo, il cui essere non consiste nello stare in se stesso, nell’essere chiuso nell’appartenersi, nell’essere definito in e da se stesso, l’essere dell’uomo consiste nell’essere in movimento al di là dell’uomo, nell’autosuperarsi di continuo verso un termine, che appunto l’orizzonte assoluto ci dischiude, nello star fuori in uno stato di sospensione non statica in un movimento verso l’assoluto.

 

 

Teologia negativa

 

Questo assoluto non è una parte di questo mondo, se pur la più sublime, non è un momento del nostro mondo creato, se pur il più alto, il più nobile, il più eccelso. Se interpretiamo così l’assoluto, lo fraintendiamo. Qui dobbiamo ricorrere a questa esperienza dell’orizzonte, per intravedere il rapporto tra la realtà che noi siamo e sperimentiamo e l’assoluto. Tutto noi vediamo alla luce dell’orizzonte; tutto misuriamo sulla misura dell’orizzonte: la misura che tutto misura non può essere a sua volta misurata; l’ampiezza che tutto abbraccia e nella quale tutto viene sperimentato e vissuto non può essere a sua volta abbracciata da qualche cosa di più grande. La distinzione radicale che esiste nella realtà è tra questo orizzonte, misura ultima non misurabile, ampiezza non ulteriormente abbracciabile e tutto il resto, che invece è misurato, abbracciato, definito dallo stare dentro, dal rapporto con questo orizzonte.

In questo senso veramente l’orizzonte è l’ineffabile, l’indicibile, e quando diciamo che è infinito, non diciamo qualche cosa di positivo, ma di enormemente negativo, per cui noi non abbiamo una parola e diciamo semplicemente che non è finito, infinito, e con questo poniamo uno stacco, un divario veramente incolmabile tra il tutto e il finito, anche preso nelle sue espressioni più alte; e questo non finito che per il fatto di essere il non finito, l’infinito, l’immenso, il non misurabile si differenzia, si distanzia da tutto il resto, con uno stacco per cui tutte le differenze che esistono tra realtà finita e infinita sono di ben altro ordine della differenza che esiste tra il finito e il non finito; la differenza che esiste tra l’ameba e un uomo è enorme, ma è sempre all’interno della realtà finita, mentre la differenza che esiste tra il finito, nella sua espressione più alta, uomo o anche spirito sovrumano, e l’infinito è qualitativamente diversa da ogni differenza esistente all’interno del finito. Questo è chiaro, per cui l’infinito è l’indefinibile, 1’innominabile, in un certo senso è l’impensabile da noi che siamo immersi in una realtà tutta quanta finita e che facciamo esperienza solo del finito. Per cui perfino S. Tommaso, rifacendosi a tutta la tradizione di teologia negativa, diceva a un certo punto che è più vero riguardo a Dio dire che non è, piuttosto che è.

E’ sconcertante. Non nega l’esistenza di Dio, ma dice che quando si fa un’affermazione su Dio, attribuendogli un essere, dobbiamo stare attenti a non confondere l’essere come Dio lo realizza, lo possiede, con l’essere come noi lo viviamo e lo possediamo, perché noi lo possediamo in maniera finita. In Dio esiste un salto qualitativo impensabile, che caratterizza appunto l’infinito rispetto al finito, per cui dopo aver detto Dio è, bisogna dire Dio non è come noi siamo, Dio è buono, è la vita, ma non come lo siamo noi. Tutto quello che c’è di grande, di nobile nel mondo va attribuito a Dio, ma Lui non esiste alla maniera finita, per cui occorre essere consapevoli che tutti i nostri nomi su Dio, alla fine devono sfociare nel silenzio, tutti i nostri discorsi su Dio, devono essere, se vogliono essere coerenti, preludio a quella adorazione nella quale non si parla più, e nella quale il silenzio diviene il riconoscimento che Dio è immensamente più grande di tutto ciò che si possa dire o pensare di Lui.

Questo ci fa trasalire. Però se non vogliamo degradare Dio a uno dei tanti esseri del mondo, sia pure il più sublime, noi dobbiamo operare secondo la logica di questa teologia che dopo aver affermato quello che di positivo si può affermare, partendo dal mondo, nega che Dio sia questa positività, nei termini creati. E solo così si intravede qualche cosa dell’infinità, dell’immensità, dell’ineffabilità di Dio: Dio del silenzio, Dio trascendente, totalmente diverso rispetto a noi. Per cui Dio, secondo la Scrittura, è avvolto, è immerso in una tenebra inaccessibile, non perché Dio sia tenebra in sé, ma perché noi intravediamo di Lui solo qualcosa, senza poter veramente disporre, impadronirci di Lui, senza poter, con le nostre categorie, penetrare in Lui. A Dio insomma, non possiamo mettere le mani addosso, non possiamo ingabbiarlo nei nostri schemi. Dio è la realtà, la cui ampiezza, grandezza si intravede proprio secondo la nostra percezione dell’orizzonte infinito, alla luce del quale noi pensiamo Dio.

 

 

Tracce di Dio

 

Non che non ci venga da Dio nessuna parola, nessun segnale o manifestazione, non che di Dio non possiamo percepire assolutamente nulla, qualche cosa della realtà di Dio a noi traspare; c’è in noi un presagio di Dio, di chi è Dio; noi attribuiamo a Dio il meglio che troviamo nella realtà (la bontà, l’essere, la vita, la personalità) noi sentiamo che tutti i valori non possono non avere a che fare con Dio, come espressioni finite, limitate, microscopiche di una realtà che in Dio si ritrova con una misura che non è misura.

Da Dio ci vengono tante voci, ma nessuna che ci dia veramente Dio, che ci riveli il segreto di Dio, che metta, stabilisca comunione tra lui e noi; tanti segni della sua azione nel mondo, che rinviano a Lui, e che ci fanno intravedere vagamente, confusamente qualche cosa di Dio, ma che non ci rivelano il suo volto. Siamo pervasi da questa sete di assoluto, da questo desiderio di un contatto vivo, di una appartenenza immediata, di una immersione nell’assoluto, e invece solo scintille, frammenti, non della sostanza di Dio, ma provenienti da Dio, che ci rivelano qualche cosa di Dio, ma non ci possono veramente donare Dio, e questo Dio rimane silenzio, tenebra.

Che cosa si conoscerebbe di un uomo, se si conoscesse soltanto l’impronta che lascia? Potreste dire che l’impronta segnala la presenza di un uomo, ma niente di più. Tutto quello che percepiamo di Dio nel mondo, tutte le tracce che cogliamo nel mondo, tutte le voci che ci arrivano dal silenzio di Dio non sono tali da farci conoscere Dio in se stesso come noi pure decideremmo conoscere: i suoi sentimenti, disposizioni, il suo segreto intimo, la sua fisionomia, il suo volto. Tutte le cose parlano di Dio perché tutte vengono da Dio; tutto dunque, portando il segno, il marchio di questa origine divina non può non rivelare qualche cosa di colui da cui proviene. Che cos’è prima di tutto la realtà, ogni realtà? Se noi prendiamo sul serio il discorso sull’assoluto, dal quale tutto deriva, tutta la realtà è un’idea pensata da Dio, e da Dio poi secondo questo pensiero anche posta concretamente nell’essere.

Tutto quello che esiste, esiste come un pensiero che Dio ha avuto, che Dio ha, tutto è pensiero, idea di Dio, perché se non fosse stato pensato, ideato da Dio, non potrebbe esistere. Tutto quello che esiste, come questa idea a cui Dio ha dato corpo, consistenza fuori del suo essere immenso, ponendolo davanti a sé nella dipendenza da sé, concedendo a questa idea da lui pensata una partecipazione infinitesimamente piccola ma reale al suo essere: mistero immenso di Dio, di condiscendenza di Dio; è il Dio discreto che vuole che davanti, di fronte a Lui esista una vera partecipazione all’essere, qualche cosa che non è semplicemente Dio. Dio gode del fatto che accanto al suo essere immenso, totale, supremo, in rapporto con questo essere ci siano autentici frammenti di essere, che incorporano un’idea di Dio.

L’acqua prima di essere H2O è un’idea di Dio, che poi Dio ha concretamente attuato, aprendo a questa idea uno spazio fuori dal suo Essere. Per cui se ogni realtà è un’idea di Dio, non può non parlare di Lui, è un’idea divina, pensata da Dio. E’ pensiero pensato e attuato da Dio che rinvia al pensiero pensante che è Dio. Tutto è parola di Dio: questa è la dimensione più profonda di ogni realtà, la verità ultima. Però è parola insufficiente, inadeguata, che mentre svela Dio, non lo mette a nostra disposizione tanto che possiamo dire: adesso ho incontrato Dio, adesso Dio è lì, a mia disposizione in questa parola; è un’eco lontanissimo di Dio.

Questa parola di Dio ha una sua natura concreta, è un determinato pensiero di Dio, però alla fine questa parola rimane aperta, ha possibilità di espressione nuove, impreviste, sorprendenti da parte di chi le ha pronunciate. Di fronte a una realtà il cui elemento qualificante è l’essere parola di Dio, attraverso questa voce potentissima, che per noi però è silenzio, Dio può dire tante cose.

 

 

L’uomo parola di Dio

 

Fra tutte le cose, fra tutti i pensieri pensati da Dio, che noi incontriamo così realizzati, qual è la realtà più grande, il pensiero pensato e attuato più sublime, la voce più eloquente e la parola più significativa? Siamo noi uomini. L’uomo è parola; è la parola più grande, quello che noi cogliamo di Dio, in maniera sempre limitata, ma efficace, lo cogliamo partendo dall’uomo, dalla sua bontà, dalla sua bellezza, dal suo pensiero, dalla personalità, da tutti i valori di cui l’uomo è portatore, povero e finito, ma tale da rappresentare nel mondo l’idea di Dio meno inadeguata. L’uomo per la capacità di presenza a se stesso, e qui l’uomo avverte il suo essere finito, è spalancato all’orizzonte infinito.

 

 

L’uomo disponibilità all’infinito

 

L’uomo è capace di infinito, non è infinito, ma è chiamato al rapporto con l’infinito, suscettibile delle realizzazioni più ampie e più ricche; è un infinito negativo, non è l’infinito nella sua pienezza, è la disponibilità a ricevere l’infinito. Fra tutti gli esseri che esistono, che noi conosciamo è l’unico che è disponibile veramente a ricevere in sé l’infinito. Per questo è in continua tensione, l’uomo è la Parola che Dio, se vuole, può riempire di infinito, perché è la parola che ha escogitato con questa ampiezza potenziale illimitata. Sentiamo il card. Martini:

 

mediante una intuizione che è depositata da sempre nel cuore dell’esperienza umana, e che può e deve assumere l’andamento di una rigorosa argomentazione riflessiva (intuizione che deve diventare ragionamento), l’intelligenza umana arriva a comprendere che la pienezza della vita, della verità, dell’amore, stanno in una realtà che pur rendendosi presente nell’uomo (in questi frammenti di valore che l’uomo porta con sé), è al di là dell’uomo, e che noi chiamiamo Dio. L’uomo allora si scopre come presenza di Dio a sé, come segno di lui, fra tutti i segni, il segno più grande, fra tutti i modi di presenza, il più grande, come espressione in cui Egli si manifesta pur essendo inesprimibile. L’uomo in questo senso è parola di Dio, che fra tutte le parole create è quella più significativa. Nel parlare umano viene alla luce questa radicale caratteristica dell’uomo, di essere parola di Dio. L’essere dell’uomo è creativo solo in quanto obbedisce, in un atteggiamento di attesa, di disponibilità, di fedeltà a quello che dice Dio di lui. (Carlo Maria Martini, In Principio la Parola)

Che cosa Dio possa dire all’uomo rivolgendosi all’uomo, non attraverso un altoparlante, un libro, una voce che suona dal cielo, ma all’uomo attraverso l’uomo, con quale intensità, forza comunicativa, non può essere anticipato, determinato, deciso dall’uomo; l’unica anticipazione, decisione che compete all’uomo è quella del silenzio pieno di attesa, di rispetto, di obbedienza. Quali imprevedibili forme di comunicazione Dio ha deciso di attuare nel suo amore infinito? Tutto è parola.

Noi siamo la parola più grande, capace di infinito, di accogliere in sé, se l’infinito volesse questo, la ricchezza dell’infinito. Noi aspiriamo non a una qualsiasi parola, che venga dal silenzio, e attraverso la quale il silenzio diventi tutto parola per noi. Noi desideriamo vicino questo infinito del quale siamo assetati , ma non lo possiamo sentire vicino; noi vorremmo, senza pretese, con lo slancio del nostro cuore, poter cogliere di questo assoluto, non solo l’impronta, ma poter scoprirne il segreto, poter sentire la parola che finalmente ci dona, ci comunica l’infinito, squarciando la cortina di silenzio e di tenebra. E’ possibile che si riveli in maniera tale che non sia più il silenzio, la tenebra, ma rimanendo immenso, infinito, sia per noi parola che porta il nome di Dio? sia luce nella quale risplende il mistero di Dio? Qualcuno dice che non è possibile che Dio parli così agli uomini perché fra Dio e l’uomo c’è un divario incolmabile; Dio non può parlare all’uomo, come l’uomo parla all’uomo, cuore, a cuore, a tu per tu, perché Dio è l’assolutamente altro, trascendente, ineffabile.

La Scrittura dice:

 

Chi può vedere Dio e non morire?

 

Nei profeti Dio dice:

 

Chi può accostarsi a me senza venire bruciato?

 

Noi cristiani siamo talmente familiarizzati con l’idea di Dio che ci viene incontro, ci parla, che ormai non avvertiamo più l’incommensurabilità e l’enorme novità, l’inaudita sorpresa di questo accostamento di Dio. Noi rischiamo di banalizzare Dio, introducendolo nel circuito della realtà umana come se non fosse più Lui, sdivinizzando Dio. Può Dio parlare all’uomo in modo da essere quella parola che rompe il silenzio una volta per sempre, per cui Dio è partner dell’uomo, apre con l’uomo un dialogo, nel quale invita l’uomo alla comunione intima con sé, per renderlo partecipe dei suoi più profondi divini segreti, della sua vita? E’ già un miracolo che un uomo comunichi all’altro uomo il suo cuore, la sua intimità, profondità, interiorità, e anche questo si realizza sempre imperfettamente. C’è sempre una spaccatura che rende impossibile la piena comunicazione, e anche lo sforzo più generoso di comunione incontra l’ostacolo sottile, ma impenetrabile dell’incomunicabilità. Il massimo che può avvenire è che l’uomo si ponga in stato d’attesa, ma senza alcuna speranza che risponda qualcuno, questo è l’unico possibile atteggiamento dell’uomo di fronte all’infinito, di cui coglie solo tracce, echi, impronte, ma con le quali l’infinito rimane sempre impenetrabile silenzio e tenebra misteriosa.

Ma è possibile la rivelazione di Dio - non libro che piove dal cielo, coro di angeli, parola dal cielo, una voce,- ma Dio che ti parla facendosi vicino, Dio che è parola perché é cuore aperto, intimità che si comunica? Questo è rivelazione? Sì, perché nel mondo esiste quella parola che è l’uomo, capace di ricevere l’infinito. Se Dio, in un atto che può essere solo d’amore dentro di lui, si degna di riempire questo infinito potenziale , vuoto d’infinito, che è l’uomo, della sua pienezza, allora quell’uomo è la parola che svela Dio, alla quale Dio si rende presente, in maniera così completa che oltre non ha più niente da dire.

Che cosa Dio può dire all’uomo tramite l’uomo, attivando tutta la potenzialità dell’uomo, trascinandosi con tutta la sua pienezza divina nell’uomo, capace d’infinito? Dio non può essere anticipato, determinato, deciso dall’uomo. Noi non possiamo dire: Dio può attraverso le cose e soprattutto attraverso l’uomo dire soltanto questo.

Da quando esiste l’uomo nel mondo esiste l’alfabeto col quale Dio può pronunciare completamente se stesso. Noi come capaci di infinito, siamo questo alfabeto, attraverso il quale Dio riempie questa capacità di infinito, può dire tutto se stesso, attraverso l’uomo; noi non possiamo dire a Dio che non può farlo dal momento che l’uomo esiste come questo essere spalancato, in attesa, capace d’infinito. L’unica anticipazione, decisione che compete all’uomo è quella del silenzio pieno di attesa, di rispetto, di obbedienza; è l’attesa di un uomo, che per quanto uomo, è parola che porta in sé Dio, perché finalmente la potenza, la capacità che l’uomo ha di ricevere Dio, viene in quell’uomo attuata.

Quali imprevedibili forme di comunicazione Dio ha deciso di attuare nel suo amore infinito?

L’imprevedibile è accaduto in Gesù di Nazaret.

 

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