L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

Attese umane e risposte di Dio

 

 

Solo l’amore è credibile

Per concludere l’argomento della volta precedente Il Rivelatore, un uomo crocifisso, mi riallaccio al testo di Isaia, capitolo 53. L’autore stesso di questo capitolo è consapevole della straordinarietà del suo annuncio.

 

Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada, il Signore fece cadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai tosatori e non aprì la sua bocca. Con oppressione e con giusta sentenza fu tolto di mezzo, sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del suo popolo fu percosso a morte. Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, e quando egli offrirà se stesso in espiazione, vedrà un a discendenza e si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, il giusto mio servo giustificherà molti, Egli si addosserà le loro iniquità. Per questo gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi mentre portava il peccato di molti ed intercedeva per i peccatori.

 

Questo testo è forse la pagina più alta dell’Antico Testamento. A noi interessa per l’interrogativo che ci ponevamo, perché in questo brano la figura del giusto umiliato, condannato, figura intravista anche da Platone, viene a caricarsi di un ruolo straordinario. Il DeuteroIsaia con questa sua intuizione veramente grande per l’Antico Testamento, che prelude ormai alla Alleanza definitiva, era tormentato dall’interrogativo: come manterrà Dio le sue promesse? in che maniera riuscirà ad imprimere nella nostra storia, storia del popolo d’Israele, la svolta decisiva, quella che era stata annunciata qualche anno prima da Geremia e da Ezechiele.

Come riuscirà a trasformare quel cuore di pietra di un popolo ribelle in un cuore docile? come potrà instaurare un nuovo rapporto fra Iahvè e il suo popolo, in modo che questo popolo sia finalmente capace di rispondere con convinzione, con generosità, con abbandono confidente alle sollecitazioni del suo Dio? E la risposta è data proprio in questa pagina. Dio punterà tutte le sue carte per così dire, in vista della attuazione del suo progetto, su un uomo, su un giusto, su un servo, Il servo per eccellenza, contrassegnato da un destino atroce. Lo strumento di cui Dio si servirà per la realizzazione dei suoi disegni sarà un suo eletto, un suo amico, un suo profeta, un suo inviato, un suo rivelatore che nella sua sorte concreta porterà i segni non della gloria, ma dell’infamia, non della vittoria ma della sconfitta.

 

 

Lo scandalo della sofferenza ingiusta

 

L’affermazione ha veramente qualche cosa di incredibile per l’Antico Testamento, perché il dolore del giusto, la persecuzione, la sofferenza del giusto erano sempre stati un grande enigma per lo spirito di Israele che per lunghi secoli non conosceva un vero e proprio aldilà, una retribuzione ultraterrena: per lunghi secoli Israele si muove nella prospettiva molto ristretta di una benedizione e di una maledizione che sono confinate nello angusto ambito terreno.

Per Israele l’Oltretomba (Sheol) è un regno che accoglie tutti i morti indistintamente in una esistenza insignificante dove tutti vengono livellati alla stessa maniera, buoni e cattivi, amici di Dio e nemici di Dio. Uno Sheol del quale né gli uomini né Dio si interessano, per questo era tanto più angoscioso l’interrogativo:

Ma perché il giusto sulla terra spesso deve condurre una vita così grama, quando invece il malvagio trionfa? Se tutto si gioca nell’esistenza terrena questo interrogativo non poteva non essere esasperato. Per questo leggendo i salmi si incontra più di una volta il dramma dell’anima di Israele di fronte a questo indecifrabile mistero del dolore innocente, e tanto più della sofferenza del giusto perseguitato per la giustizia. In questo contesto appunto il DeuteroIsaia si pone l’interrogativo: come Dio attuerà il suo progetto? E la risposta incredibile é: lo attuerà attraverso l’uomo dei dolori attraverso il suo servo per eccellenza che sarà insieme per eccellenza l’uomo della sofferenza innocente ed ingiusta, del tutto gratuita e per questo del tutto apparentemente assurda.

 

 

La vicenda di Geremia

 

E’ quando il DeuteroIsaia propone come soluzione della storia di Israele o della storia semplicemente, questa figura di servo di Dio così impregnata della sofferenza, quasi certamente il profeta ha davanti a sé e porta in sé il ricordo ancora recente di Geremia, della sorte di Geremia, vissuto pochi decenni prima. Questo amico di Dio è inviato da lui in tempi tristi a un popolo spensierato, a un popolo dimentico della alleanza, coinvolto in una spirale di peccato e di infedeltà, è inviato per annunciare a questo popolo l’imminente rovina, il castigo.

Geremia è un uomo dall’estrema sensibilità, attaccato alla sua patria e alla sua gente, è un uomo dall’animo mite, e semplice e proprio lui deve portare alla sua gente da parte di Dio questo messaggio: la fine è vicina; e il popolo, cominciando dai suoi capi è preso dalla follia, tutto deve andar bene per forza. C’è una legione di falsi profeti che cercano di blandire e lusingare l’anima del popolo e cercare di convincerlo che non deve temere nulla; e Geremia deve opporsi contrastare questa moda e per questo deve subire persecuzioni e dolori senza numero, viene imprigionato, torturato, malmenato. E’ un pover’uomo al quale la missione ricevuta da Dio riserva invece che onore e accoglienza, delusione, amarezze, persecuzioni.

Il DeuteroIsaia, impressionato dalla vicenda di Geremia, deve essersi chiesto: ma come è possibile che ancora una volta si sia ripetuta nella nostra storia questa tragedia, che l’inviato di Dio venga respinto e maltrattato e che il messaggio che lui porta venga irriso e accantonato per una cecità che persiste tenace fino al momento in cui gli eventi, l’evento appunto della invasione della Palestina e della caduta di Gerusalemme per l’assedio dei Babilonesi, e il conseguente esilio, costringono ad apprendere, ma ormai è troppo tardi, la verità che Geremia ha annunciato? Perché questa costante del rifiuto dell’amico di Dio, dell’inviato di Dio?

 

 

L’intuizione: la salvezza viene dalla passione del Giusto

 

Il DeuteroIsaia deve essersi detto in maniera abbastanza lucida: non è possibile che questo destino di persecuzione e di morte riservato all’ inviato di Dio, non abbia nulla a che fare con la sua missione; deve essere anzi il momento privilegiato del suo incarico; ciò che apparentemente è assurdo, la sofferenza dell’amico, dell’eletto di Dio, rappresenta invece il momento decisivo e più prezioso della sua missione. Non è come potrebbe sembrare soltanto il suo fallimento.

E sulla base di questa intuizione, sulla misteriosa preziosità e fecondità del dolore del giusto, sviluppando questa intuizione fino alle ultime conseguenze, il DeuteroIsaia giunge alla conclusione che la vicenda umana, la storia umana vive dell’apporto non tanto dell’azione, ma della passione degli inviati. Ciò che risolverà i nodi più angoscianti della storia umana non sarà tanto l’azione degli uomini che Dio invia come suoi missionari ma sarà la loro passione; la passione, in altre parole, è più potente dell’azione, e lì dove l’azione sembra fallire la passione riesce.

Gli schemi umani sono tutti ribaltati. Secondo noi solo l’azione è efficace e dove l’azione dovesse fallire non c’è più alcuna risorsa; secondo noi la passione dice passività e negatività e quindi è assolutamente sterile. Qui invece balza in primo piano la figura di un uomo che è sostanzialmente passione perché è la passione, non naturalmente in se stessa, come tale, ma la passione vissuta con obbedienza, accettata secondo una disponibilità d’amore, a decidere della sorte dall’umanità.

L’asse della storia umana è data da un uomo sofferente, dal giusto che è tutto passione, uomo dei dolori, da quel giusto che probabilmente era lui stesso condizionato dalla mentalità comune, secondo cui quello che conta è l’agire, ma che a un certo punto condotto dallo Spirito di Dio è arrivato a scoprire che quello che conta veramente è l’offrire la propria vita in espiazione, come sacrificio che solo libera gli uomini dal male. Il DeuteroIsaia guardando alla storia di tanti profeti che Israele aveva conosciuto e soprattutto guardando a Geremia, conclude che alla fine verrà inviato da Dio un giusto sul quale si abbatterà tutto il cumulo del peccato degli uomini, un giusto che in qualche modo incorporerà in sé, quasi personificandola, tutta la storia della malvagità della decadenza di questa nostra povera vicenda umana.

Un giusto che veramente come novello Atlante porterà sulle sue spalle e verrà schiacciato dal peso enorme e insostenibile di questo ammasso di male. Giusto apparentemente maledetto dalla mano di Dio, giusto respinto dagli uomini, emarginato dagli uomini e apparentemente condannato da Dio stesso, giusto costretto a subire questa sofferenza atroce di sentirsi bandito da consorzio umano, di sentirsi così bandito anche da Dio. E questo dice il DeuteroIsaia dell’uomo al cui destino assurdo è legata la sorte di tutta l’umanità.

E’ l’uomo la cui passione riesce a realizzare il progetto di Dio. Il giusto cade, ma questa sua caduta accettata liberamente, voluta in atteggiamento di disponibilità alla volontà di Dio rappresenta la ripresa dell’umanità. Per questa sua caduta l’umanità viene elevata.

Abbiamo analizzato questo testo per ribadire e approfondire quella intuizione che era già abbozzata in Platone. Ci domandavamo: se Dio dovesse rivelarsi, quale sarà il volto dell’uomo attraverso il quale Dio si rivelerà? Stando a questa linea di intuizioni in un crescendo continuo da Platone fino al DeuteroIsaia, la risposta è abbastanza univoca: sarà un uomo sfigurato, abbruttito dal dolore, di fronte al quale l’umanità si sentirà autorizzata a dichiarare:

 

non è lecito che egli continui a calpestare la nostra terra

 

e insieme un uomo che nella sua esperienza si sentirà per così dire caricato della sua missione, davanti a Dio, di tutto quanto il peso del peccato dell’uomo. E’ un’ipotesi, soltanto ipotesi, molto sconcertante. E’ proprio questa la parola di Dio che noi ci aspettiamo quando desideriamo che Dio esca dal suo silenzio e si faccia parola? E’ proprio questa la nostra attesa, non vorremmo noi piuttosto avere a che fare con un ben altro Rivelatore di Dio, se dessimo ascolto a quelle che sono le nostre voci interiori più immediate e apparentemente più sicure e vere? Non sentiamo noi tutto sommato che la linea presentata dai tre testi è in profondo contrasto con quello che noi desideriamo riguardo ad una eventuale rivelazione, a quello che noi desideriamo per l’onore di Dio stesso?

 

 

Le attese umane e la risposta di Dio

 

S. Paolo nella lettera ai Corinzi, capitolo 1° v. 22, ha un testo che bene esprime questa nostre attese: I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza. I Giudei, per dire una categoria dell’umanità, un modo di sentire, una determinata mentalità, i Greci per dire un’altra mentalità, un’altro modo di sentire. I Giudei chiedono i miracoli.

Questo Giudeo c’è in tutti noi e da Dio si attende che sia il Dio potente e che la rivelazione di Dio sia corroborata dalla potenza; il Dio potente deve trasparire attraverso la personalità concreta del Rivelatore.

E se il Rivelatore di Dio non parla con la sua figura, non parla di potenza non può essere rivelatore di Dio, che se non è potente non è Dio; una potenza che significhi vittoria facile, trionfo senza tante peripezie, per la via più breve, dominio incontrastato che si impone senza troppe remissività e cedevolezze. Il greco cerca invece la sapienza.

Anche questo c’è in ciascuno di noi, quel greco che in ciascuno di noi si compiace della sofisticatezza di una sapienza raffinata, quel greco che in ciascuno di noi a livello più semplice, più elementare, vorrebbe che tutto si svolgesse secondo le norme sicure, collaudate del buon senso, sapienza terra a terra, ma veramente decisiva, perché questo greco quando prevede una possibile rivelazione di Dio si attende che l’uomo destinato a rivelare Dio sia un uomo che si impone per lo splendore inconfutabile di una sapienza umana che detta legge, che con piglio sicuro e categorico smonta tutte le obiezioni contrarie e riesce a persuadere, a vincere convincendo, convincere così da vincere attraverso la ponderosità delle sue argomentazioni.

Un Dio sapiente dunque, di una sapienza che invidiamo di possedere, e se in qualche modo crediamo di esserne dotati ci compiacciamo. Dio se deve rivelarsi, se deve entrare nella storia umana, deve lasciare il marchio della sua sapienza assoluta. Ma quando pretendiamo questo facciamo veramente i conti con il Dio vivo o con un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, ridotto alle nostre proporzioni? Questa domanda ce la possiamo veramente porre. Talvolta quando noi crediamo di pensare in grande di Dio - e di Dio dobbiamo pensare in grande - non è forse riflessa in questo pensiero la logica puramente umana della nostra meschinità? Questo Dio del quale pensiamo di poter prendere le misure e al quale pensiamo di stabilire persino la taglia, è veramente ancora Dio?

Non ha forse ragione S. Agostino quando afferma che se Dio dovesse corrispondere a certe nostre attese, o dovesse conformarsi a certe nostre aspirazioni, dovesse essere rinchiudibile in certi nostri schemi, non sarebbe più Dio, ma sarebbe semplicemente la nostra misura, un Dio grande-piccolo come noi, meschino come noi, rinchiuso nelle anguste prospettive che la nostra mente elabora quando, travolta da passioni, da pregiudizi, da abitudini, cerca di stabilire modelli di valore che ben poco risentono della stessa ampiezza sconfinata su cui l’uomo capace di infinito riesce ad affacciarsi? Dio deve rimanere Dio. Qualsiasi ipotesi noi formuliamo sulla possibile rivelazione di Dio, una cosa dovrebbe rimanere chiara e condizionante per tutto il discorso:

 

che Colui che si rivela è inaccessibile a noi.

 

Dio rispetto alla nostra possibilità di percezione è il Dio del silenzio e solo per una libera, sovrana, inesplicabile decisione diventa il Dio della parola. Quindi non dovremmo lasciare troppo spazio alle nostre fantasie riguardo al Rivelatore di Dio potente e sapiente, se veramente prendiamo sul serio che il Dio che si rivela è il Dio assolutamente trascendente, assolutamente inaccessibile, Dio le cui vie non sono le nostre vie, i cui pensieri non sono i nostri pensieri, specialmente quando questo Dio esca dalla sua inaccessibilità e ci viene incontro, soprattutto quando questo Dio rompe il suo silenzio e diventa per noi parola.

 

 

Il Dio condiscendente

 

Perché questo è il punto: la trascendenza di Dio non scompare quando Dio realizza nella rivelazione un gesto di condiscendenza verso di noi. Il Dio che ci viene incontro è un Dio veramente condiscendente nel senso etimologico del termine, che discende alla nostra portata, si lascia coinvolgere in un movimento che lo porta lì dove noi siamo. Discendenza che termina alla nostra esistenza creaturale come pure con la nostra condizione di peccato. Ma guardiamo pure il primo aspetto: la nostra condizione creaturale impone a Dio una condiscendenza quando diventa per noi il Dio che si accosta per rivelarsi, per diventare per noi tangibile, percettibile, compagno di viaggio, solidale con noi nel nostro cammino. In questa condiscendenza Dio rimane trascendente, non cessa di essere trascendenza.

Il miracolo di questa condiscendenza non incrina, ma vorrei dire esalta la trascendenza, l’assoluta superiorità, incommensurabilità di Dio. Ogni discorso, ogni ipotesi sulle modalità concrete di questa condiscendenza deve prendere prima sul serio il fatto che Dio nel condiscendere non sminuisce affatto la sua trascendenza.

Questa trascendenza dà il significato ultimo alla condiscendenza perché quello che conta è che nel Rivelatore ci sia veramente presente l’Assoluto, il Trascendente, che nel rivelatore abbiamo a che fare semplicemente con uno di noi, ma con uno di noi che porta in sé la pienezza del tutt’altro da noi, quello che conta in questa condiscendenza è che Dio rimanga se stesso: il Trascendente. Questo fatto da solo ci impedisce di correre ipotesi di rivelazioni troppo familiari alla nostra immaginazione, alla nostra logica umana. Tanto più - e questo è il passaggio decisivo - che questa condiscendenza è solo fenomeno d’amore, è dall’inizio alla fine manifestazione d’amore.

 

 

La Rivelazione Evento d’amore

 

E’ espressione di bontà, non può essere diversamente: Dio che si rivela, Dio che attinge alle sue riserve inesauribili d’amore, e si concede come amore. La rivelazione e rispettivamente il Rivelatore, proprio perché si tratta di un’uscita di Dio da se stesso per venire a noi, ha il suo orizzonte di intelligibilità e categorie di interpretazione meno inadeguate nel fenomeno dell’amore e della bontà. Non può presiedere alle riflessioni sulla modalità della rivelazione e sul rivelatore un tipo di pensiero che è comandato da categorie di potenza, da termini di dominio, di vittoria, da categorie di sapienza e di gloria che si impone dall’alto. Ogni fenomeno ha bisogno per venir rivelato di un approccio che sia conforme all’entità del fenomeno. Se voglio conoscere l’identità fisico-chimica uso il metodo elaborato da Galilei in poi, che è un metodo guidato dal pensiero matematico; ma a un fenomeno d’amore non mi accosto con un criterio fisico e una lista di formule. Se la rivelazione è condiscendenza, condiscendenza nella quale Dio rimane il Trascendente, la rivelazione fenomeno d’amore, il Dio trascendente dovrà essere il Dio che ci trascende, che ci supera in quanto è amore, in quanto è potenza sì, ma potenza d’amore, in quanto è sapienza sì, ma sapienza d’amore.

La rivelazione è un fenomeno d’amore. Questo - dicevo - è un punto decisivo, lo dice la Dei Verbum al n.2: Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà. Piacque: dipende dalla sua libera scelta, assolutamente insindacabile, che ha la sua ragione d’essere soltanto in Dio e in questa sua compiacenza di rivelare se stesso e il suo atteggiamento verso di noi, rivelare se stesso così come Egli è per noi.

Nella sua bontà: la prima parola che viene usata è quella della bontà. La sapienza stessa che giustamente subito dopo viene citata, é una sapienza relativa alla bontà; e il Concilio poteva anche aggiungere, ma non l’ha fatto per non prestare fiato a certi equivoci, poteva aggiungere anche nella sua potenza, ma anche se avesse aggiunto tale parola, anche questa dovrebbe venire ricondotta alla bontà. Continua poi il Concilio: Con questa rivelazione, Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Sono parole che meriterebbero veramente di essere approfondite. Amore, amici; la rivelazione instaura un rapporto di amicizia, deriva dalla volontà di Dio di aprire se stesso in un atto di amore agli uomini, trattandoli come amici. La rivelazione è quindi un fenomeno di amicizia, e non potrebbe essere diversamente.

A chi io rivelo me stesso, se qualche volta rivelo me stesso? A chi apro il segreto della mia intimità umana, a chi faccio dono di me stesso confidando me stesso in questa profondità, se non ad un amico? Questa è l’esperienza umana, molto familiare a tutti noi, e sappiamo che è questo valore che dà all’amicizia la sua particolare bellezza e preziosità. Essere amici significa aprirsi l’uno all’altro, per farsi dono l’uno all’altro ed accogliersi.

La rivelazione è inscritta in questa logica: Dio se si rivela lo fa semplicemente per aprire se stesso all’uomo, per donare veramente se stesso in questa confidenza, in questa condiscendenza che porta Dio accanto all’uomo, che lo porta dentro l’uomo, perché la tensione dell’amore sta nel tentativo di trasformarsi l’uno nell’altro rimanendo se stessi per poter godere di donarsi all’altro e di ricevere il dono dell’altro.

Guai infatti se dovesse scomparire l’alterità che è condizione indispensabile perché ci possa essere la fusione reciproca dell’amicizia e l’apertura con la quale ci si abbandona tendenzialmente l’uno all’altro per essere l’uno nell’altro.

La condiscendenza del Dio trascendente quando si rivela è una condiscendenza che tende all’immanenza, una immanenza che naturalmente non annulla la trascendenza di Dio, ma porta la trascendenza di Dio dentro di noi. Tutto questo o è amore, amore infinito, oppure è del tutto inesplicabile, è puro accostamento di parole senza significato.

Solo l’esperienza dell’amore, solo a partire da questa esperienza dell’amore e dell’amicizia, noi riusciamo ad intravedere cosa significhi rivelazione di Dio, Dio che si rivela, l’uomo al quale  Dio si rivela. Accettato questo presupposto, che la rivelazione è dall’inizio alla fine un fatto d’amore, allora anche le modalità della rivelazione, l’espressione storica concreta della rivelazione, il rivelatore, deve portare non l’immagine della potenza e della sapienza, ma il carattere dell’amore.

Il rivelatore non può essere semplicemente una personalità sfolgorante di potenza e di sapienza, ma deve essere una personalità sfolgorante di amore; deve essere la personificazione dell’amore, la sostanza pura dell’amore: amore al servizio del quale vengono mobilitate tutte le altre energie, potenza e sapienza comprese. Per questo solo l’amore è credibile, per questo solo la rivelazione e il rivelatore che portano i tratti dell’amore, che sono sostanziati d’amore, sono credibili. Non è credibile una rivelazione, un rivelatore che avvenisse solo all’insegna della sapienza e della potenza.

La rivelazione è credibile solo se porta l’immagine dell’amore. Solo l’amore è credibile come forma, come modalità storica di un’autentica rivelazione di Dio. Solo un uomo che sia amore può essere autentico portatore nel mondo della rivelazione di Dio. Solo nello spazio dell’amore di Dio pianta le sue tende nel mondo. Solo se dalla presenza del rivelatore si irradia amore, il rivelatore merita di essere preso in considerazione come possibile rivelatore. Se invece un uomo dovesse portare solo una logica di dominio, si dovrebbe a priori escludere la possibile manifestazione di Dio. Forse avevano ragione gli uomini come Platone, come il libro della Sapienza, come il DeuteroIsaia, quando proponevano, come massima espressione della presenza del Giusto, giustificante gli altri, appunto un uomo crocifisso, per dire l’uomo della sofferenza. Perché l’uomo crocifisso? Perché solo l’amore è credibile.

Ma - direte - perché deve essere crocifisso? Perché questo amore deve assumere queste forme raccapriccianti? Perché l’amore in questa forma umiliata, calpestata? La risposta, penso, non é difficile: se la rivelazione è condiscendenza, fino all’immersione nella nostra situazione umana, immersione che lo porta a trasformarsi per essere autentico rivelatore, per essere autentica parola, come potrebbe scendere nella nostra storia, grondante lacrime e sangue, fatta di dolore, fatta di angoscia, fatta spesso di disperazione, se non diventando amore sofferente? Non dunque un amore qualsiasi, ma un amore che nell’impatto con questo mondo di male, di morte, diventa amore misericordioso che condivide, che partecipa, si inserisce nel gioco, nel dramma dell’esistenza umana.

Perché, dice Giovanni Paolo II, misericordia è il nome che assume l’amore, è la natura stessa dell’amore quando si imbatte nel male, nel dolore, nella morte per cercare di vincerli, di superarli, di trasfigurarli dal di dentro, non per contatto superficiale, non con un tocco di bacchetta magica, ma dal di dentro.

Solo così la rivelazione è pura condiscendenza di Dio nella nostra  condizione di peccatori, devitalizzati, condannati alla morte non solo fisica. Se l’amore porta Dio ad essere dove noi veramente siamo, l’atterraggio di Dio non può essere un atterraggio morbido, lo deve portare a compromettersi fino in fondo con il nostro dramma umano. Il rivelatore è un uomo crocifisso, perché solo l’amore è credibile, ma un amore nella nostra condizione umana è credibile solo se è l’amore misericordioso che fa sua la miseria umana.

  

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