L'IMPREVEDIBILE E' ACCADUTO IN GESU' DI NAZARETH
Attese umane e risposte di Dio |
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Solo l’amore è credibile
Per concludere l’argomento della volta precedente Il Rivelatore, un uomo crocifisso, mi riallaccio al testo di Isaia, capitolo 53. L’autore stesso di questo capitolo è consapevole della straordinarietà del suo annuncio.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada, il Signore fece cadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai tosatori e non aprì la sua bocca. Con oppressione e con giusta sentenza fu tolto di mezzo, sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del suo popolo fu percosso a morte. Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori, e quando egli offrirà se stesso in espiazione, vedrà un a discendenza e si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce, il giusto mio servo giustificherà molti, Egli si addosserà le loro iniquità. Per questo gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi mentre portava il peccato di molti ed intercedeva per i peccatori.
Questo testo è forse la pagina più alta
dell’Antico Testamento. A noi interessa per l’interrogativo che ci ponevamo,
perché in questo brano la figura del giusto umiliato, condannato, figura
intravista anche da Platone, viene a caricarsi di un ruolo straordinario. Il
DeuteroIsaia con questa sua intuizione veramente grande per l’Antico Testamento,
che prelude ormai alla Alleanza definitiva, era tormentato
dall’interrogativo: come manterrà Dio le sue promesse? in che maniera
riuscirà ad imprimere nella nostra storia, storia del popolo d’Israele, la
svolta decisiva, quella che era stata annunciata qualche anno prima da
Geremia e da Ezechiele.
Come riuscirà a
trasformare quel cuore di pietra di un popolo ribelle in un cuore docile? come
potrà instaurare un nuovo rapporto fra Iahvè e il suo popolo, in modo che questo
popolo sia finalmente capace di rispondere con convinzione, con generosità, con
abbandono confidente alle sollecitazioni del suo Dio? E la risposta è data
proprio in questa pagina. Dio punterà tutte le sue carte per così dire, in vista
della attuazione del suo progetto, su un uomo, su un giusto, su un servo, Il
servo per eccellenza, contrassegnato da un destino atroce. Lo strumento di cui
Dio si servirà per la realizzazione dei suoi disegni sarà un suo eletto, un suo
amico, un suo profeta, un suo inviato, un suo rivelatore che nella sua sorte
concreta porterà i segni non della gloria, ma dell’infamia, non della vittoria
ma della sconfitta.
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Lo scandalo della sofferenza ingiusta
L’affermazione ha veramente qualche cosa di
incredibile per l’Antico Testamento, perché il dolore del giusto, la
persecuzione, la sofferenza del giusto
erano sempre stati un grande enigma per lo spirito di Israele che per lunghi
secoli non conosceva un vero e proprio aldilà, una retribuzione
ultraterrena: per lunghi secoli Israele si muove nella prospettiva molto
ristretta di una benedizione e di una maledizione che sono confinate nello
angusto ambito terreno.
Per Israele l’Oltretomba (Sheol) è un
regno che accoglie tutti i morti indistintamente in una esistenza insignificante
dove tutti vengono livellati alla stessa maniera, buoni e cattivi, amici di Dio
e nemici di Dio. Uno Sheol del quale né gli uomini né Dio si interessano, per
questo era tanto più angoscioso l’interrogativo:
Ma perché il giusto sulla terra
spesso deve condurre una vita così grama, quando invece il malvagio trionfa? Se
tutto si gioca nell’esistenza terrena questo interrogativo non poteva non essere
esasperato. Per questo leggendo i salmi si incontra più di una volta il dramma
dell’anima di Israele di fronte a questo indecifrabile mistero del dolore
innocente, e tanto più della sofferenza del giusto perseguitato per la
giustizia. In questo contesto appunto il DeuteroIsaia si pone l’interrogativo:
come Dio attuerà il suo progetto? E la risposta incredibile é: lo attuerà
attraverso l’uomo dei dolori attraverso il suo servo per eccellenza che sarà
insieme per eccellenza l’uomo della sofferenza innocente ed ingiusta, del tutto
gratuita e per questo del tutto apparentemente assurda. |
La vicenda di Geremia
E’ quando il DeuteroIsaia propone come soluzione
della storia di Israele o della storia semplicemente, questa figura di servo di
Dio così impregnata della sofferenza, quasi certamente il profeta ha davanti
a sé e porta in sé il ricordo ancora recente di Geremia, della sorte di
Geremia, vissuto pochi decenni prima. Questo amico di Dio è inviato da lui
in tempi tristi a un popolo spensierato, a un popolo dimentico della
alleanza, coinvolto in una spirale di peccato e di infedeltà, è inviato per
annunciare a questo popolo l’imminente rovina, il castigo.
Geremia è un uomo dall’estrema
sensibilità, attaccato alla sua patria e alla sua gente, è un uomo dall’animo
mite, e semplice e proprio lui deve portare alla sua gente da parte di Dio
questo messaggio: la fine è vicina; e il popolo, cominciando dai suoi capi è
preso dalla follia, tutto deve andar bene per forza. C’è una legione di falsi
profeti che cercano di blandire e lusingare l’anima del popolo e cercare di
convincerlo che non deve temere nulla; e Geremia deve opporsi contrastare questa
moda e per questo deve subire persecuzioni e dolori senza numero, viene
imprigionato, torturato, malmenato. E’ un pover’uomo al quale la missione
ricevuta da Dio riserva invece che onore e accoglienza, delusione, amarezze,
persecuzioni.
Il DeuteroIsaia, impressionato dalla vicenda di Geremia, deve
essersi chiesto: ma come è possibile che ancora una volta si sia ripetuta nella
nostra storia questa tragedia, che l’inviato di Dio venga respinto e maltrattato
e che il messaggio che lui porta venga irriso e accantonato per una cecità che
persiste tenace fino al momento in cui gli eventi, l’evento appunto della
invasione della Palestina e della caduta di Gerusalemme per l’assedio dei
Babilonesi, e il conseguente esilio, costringono ad apprendere, ma ormai è
troppo tardi, la verità che Geremia ha annunciato? Perché questa costante del
rifiuto dell’amico di Dio, dell’inviato di Dio? |
L’intuizione: la salvezza viene dalla passione del Giusto
Il DeuteroIsaia deve essersi detto in maniera
abbastanza lucida: non è possibile che questo destino di persecuzione e di morte riservato all’ inviato di
Dio, non abbia nulla a che fare con la sua missione; deve essere anzi il
momento privilegiato del suo incarico; ciò che apparentemente è assurdo, la
sofferenza dell’amico, dell’eletto di Dio, rappresenta invece il momento
decisivo e più prezioso della sua missione. Non è come potrebbe sembrare
soltanto il suo fallimento.
E sulla base di questa
intuizione, sulla misteriosa preziosità e fecondità del dolore del giusto,
sviluppando questa intuizione fino alle ultime conseguenze, il DeuteroIsaia
giunge alla conclusione che la vicenda umana, la storia umana vive
dell’apporto non tanto dell’azione, ma della passione degli inviati. Ciò che
risolverà i nodi più angoscianti della storia umana non sarà tanto l’azione
degli uomini che Dio invia come suoi missionari ma sarà la loro passione; la
passione, in altre parole, è più potente dell’azione, e lì dove l’azione
sembra fallire la passione riesce.
Gli schemi umani sono
tutti ribaltati. Secondo noi solo l’azione è efficace e dove l’azione
dovesse fallire non c’è più alcuna risorsa; secondo noi la passione dice
passività e negatività e quindi è assolutamente sterile. Qui invece balza in
primo piano la figura di un uomo che è sostanzialmente passione perché è la
passione, non naturalmente in se stessa, come tale, ma la passione vissuta
con obbedienza, accettata secondo una disponibilità d’amore, a decidere
della sorte dall’umanità.
L’asse della storia umana è data da un uomo
sofferente, dal giusto che è tutto passione, uomo dei dolori, da quel giusto che
probabilmente era lui stesso condizionato dalla mentalità comune, secondo cui
quello che conta è l’agire, ma che a un certo punto condotto dallo Spirito di
Dio è arrivato a scoprire che quello che conta veramente è l’offrire la propria
vita in espiazione, come sacrificio che solo libera gli uomini dal male. Il DeuteroIsaia
guardando alla storia di tanti profeti che Israele aveva conosciuto e
soprattutto guardando a Geremia, conclude che alla fine verrà inviato da Dio
un giusto sul quale si abbatterà tutto il cumulo del peccato degli uomini,
un giusto che in qualche modo incorporerà in sé, quasi personificandola,
tutta la storia della malvagità della decadenza di questa nostra povera
vicenda umana.
Un
giusto che veramente come novello Atlante porterà sulle sue spalle e verrà
schiacciato dal peso enorme e insostenibile di questo ammasso di male. Giusto
apparentemente maledetto dalla mano di Dio, giusto respinto dagli uomini,
emarginato dagli uomini e apparentemente condannato da Dio stesso, giusto
costretto a subire questa sofferenza atroce di sentirsi bandito da consorzio
umano, di sentirsi così bandito anche da Dio. E questo dice il DeuteroIsaia
dell’uomo al cui destino assurdo è legata la sorte di tutta l’umanità.
E’ l’uomo la cui passione
riesce a realizzare il progetto di Dio. Il giusto cade, ma questa sua caduta
accettata liberamente, voluta in atteggiamento di disponibilità alla volontà
di Dio rappresenta la ripresa dell’umanità. Per questa sua caduta l’umanità
viene elevata.
Abbiamo analizzato questo testo per
ribadire e approfondire quella intuizione che era già abbozzata in Platone. Ci
domandavamo: se Dio dovesse rivelarsi, quale sarà il volto dell’uomo attraverso
il quale Dio si rivelerà? Stando a questa linea di intuizioni in un crescendo
continuo da Platone fino al DeuteroIsaia, la risposta è abbastanza univoca: sarà
un uomo sfigurato, abbruttito dal dolore, di fronte al quale l’umanità si
sentirà autorizzata a dichiarare:
non è lecito che egli continui a calpestare la
nostra terra
e insieme un uomo che nella sua esperienza si
sentirà per così dire caricato della sua missione, davanti a Dio, di tutto
quanto il peso del peccato dell’uomo. E’ un’ipotesi, soltanto ipotesi, molto
sconcertante. E’ proprio questa la parola di Dio che noi ci aspettiamo quando
desideriamo che Dio esca dal suo silenzio e si faccia parola? E’ proprio questa
la nostra attesa, non vorremmo noi piuttosto avere a che fare con un ben altro
Rivelatore di Dio, se dessimo ascolto a quelle che sono le nostre voci interiori
più immediate e apparentemente più sicure e vere? Non sentiamo noi tutto sommato
che la linea presentata dai tre testi è in profondo contrasto con quello che noi
desideriamo riguardo ad una eventuale rivelazione, a quello che noi desideriamo
per l’onore di Dio stesso? |
Le attese umane e la risposta di Dio
S. Paolo nella lettera ai
Corinzi, capitolo 1° v. 22, ha un testo che bene esprime questa nostre
attese: I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza. I
Giudei, per dire una categoria dell’umanità, un modo di sentire, una
determinata mentalità, i Greci per dire un’altra mentalità, un’altro modo di
sentire. I Giudei chiedono i miracoli.
Questo Giudeo c’è in tutti
noi e da Dio si attende che sia il Dio potente e che la rivelazione di Dio
sia corroborata dalla potenza; il Dio potente deve trasparire attraverso la
personalità concreta del Rivelatore.
E se il Rivelatore di Dio
non parla con la sua figura, non parla di potenza non può essere rivelatore
di Dio, che se non è potente non è Dio; una potenza che significhi vittoria
facile, trionfo senza tante peripezie, per la via più breve, dominio
incontrastato che si impone senza troppe remissività e cedevolezze. Il greco
cerca invece la sapienza.
Anche questo c’è in
ciascuno di noi, quel greco che in ciascuno di noi si compiace della
sofisticatezza di una sapienza raffinata, quel greco che in ciascuno di noi
a livello più semplice, più elementare, vorrebbe che tutto si svolgesse
secondo le norme sicure, collaudate del buon senso, sapienza terra a terra,
ma veramente decisiva, perché questo greco quando prevede una possibile
rivelazione di Dio si attende che l’uomo destinato a rivelare Dio sia un
uomo che si impone per lo splendore inconfutabile di una sapienza umana che
detta legge, che con piglio sicuro e categorico smonta tutte le obiezioni
contrarie e riesce a persuadere, a vincere convincendo, convincere così da
vincere attraverso la ponderosità delle sue argomentazioni.
Un Dio sapiente dunque, di
una sapienza che invidiamo di possedere, e se in qualche modo crediamo di
esserne dotati ci compiacciamo. Dio se deve rivelarsi, se deve entrare nella
storia umana, deve lasciare il marchio della sua sapienza assoluta. Ma
quando pretendiamo questo facciamo veramente i conti con il Dio vivo o con
un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, ridotto alle nostre
proporzioni? Questa domanda ce la possiamo veramente porre. Talvolta quando
noi crediamo di pensare in grande di Dio - e di Dio dobbiamo pensare in
grande - non è forse riflessa in questo pensiero la logica puramente umana
della nostra meschinità? Questo Dio del quale pensiamo di poter prendere le
misure e al quale pensiamo di stabilire persino la taglia, è veramente
ancora Dio?
Non ha forse ragione S. Agostino quando afferma
che se Dio dovesse corrispondere a certe nostre attese, o dovesse conformarsi a
certe nostre aspirazioni, dovesse essere rinchiudibile in certi nostri schemi,
non sarebbe più Dio, ma sarebbe semplicemente la nostra misura, un Dio
grande-piccolo come noi, meschino come noi, rinchiuso nelle anguste prospettive
che la nostra mente elabora quando, travolta da passioni, da pregiudizi, da
abitudini, cerca di stabilire modelli di valore che ben poco risentono della
stessa ampiezza sconfinata su cui l’uomo capace di infinito riesce ad
affacciarsi? Dio deve rimanere Dio. Qualsiasi ipotesi noi formuliamo sulla
possibile rivelazione di Dio, una cosa dovrebbe rimanere chiara e condizionante
per tutto il discorso:
che Colui che si rivela è inaccessibile a noi.
Dio rispetto alla nostra possibilità di
percezione è il Dio del silenzio e solo per una libera, sovrana, inesplicabile
decisione diventa il Dio della parola. Quindi non dovremmo lasciare troppo
spazio alle nostre fantasie riguardo al Rivelatore di Dio potente e sapiente, se
veramente prendiamo sul serio che il Dio che si rivela è il Dio assolutamente
trascendente, assolutamente inaccessibile, Dio le cui vie non sono le nostre
vie, i cui pensieri non sono i nostri pensieri, specialmente quando questo Dio
esca dalla sua inaccessibilità e ci viene incontro, soprattutto quando questo
Dio rompe il suo silenzio e diventa per noi parola. |
Il Dio condiscendente
Perché questo è il punto: la trascendenza di Dio
non scompare quando Dio realizza nella rivelazione un gesto di condiscendenza
verso di noi. Il Dio che ci viene incontro è un Dio veramente condiscendente nel
senso etimologico del termine, che discende alla nostra portata, si lascia
coinvolgere in un movimento che lo porta lì dove noi siamo. Discendenza che
termina alla nostra esistenza creaturale come pure con la nostra condizione di
peccato. Ma guardiamo pure il primo aspetto: la nostra condizione creaturale
impone a Dio una condiscendenza quando diventa per noi il Dio che si accosta
per rivelarsi, per diventare per noi tangibile, percettibile, compagno di
viaggio, solidale con noi nel nostro cammino. In questa condiscendenza Dio
rimane trascendente, non cessa di essere trascendenza.
Il miracolo di questa
condiscendenza non incrina, ma vorrei dire esalta la trascendenza,
l’assoluta superiorità, incommensurabilità di Dio. Ogni discorso, ogni
ipotesi sulle modalità concrete di questa condiscendenza deve prendere prima
sul serio il fatto che Dio nel condiscendere non sminuisce affatto la sua
trascendenza.
Questa trascendenza dà il significato ultimo alla condiscendenza perché quello
che conta è che nel Rivelatore ci sia veramente presente l’Assoluto, il
Trascendente, che nel rivelatore abbiamo a che fare semplicemente con uno di
noi, ma con uno di noi che porta in sé la pienezza del tutt’altro da noi, quello
che conta in questa condiscendenza è che Dio rimanga se stesso: il Trascendente.
Questo fatto da solo ci impedisce di correre ipotesi di rivelazioni troppo
familiari alla nostra immaginazione, alla nostra logica umana. Tanto più - e
questo è il passaggio decisivo - che questa condiscendenza è solo fenomeno
d’amore, è dall’inizio alla fine manifestazione d’amore.
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La Rivelazione Evento d’amore
E’ espressione di bontà, non può essere
diversamente: Dio che si rivela, Dio che attinge alle sue riserve inesauribili
d’amore, e si concede come amore. La rivelazione e rispettivamente il
Rivelatore, proprio perché si tratta di un’uscita di Dio da se stesso per venire
a noi, ha il suo orizzonte di intelligibilità e categorie di interpretazione
meno inadeguate nel fenomeno dell’amore e della bontà. Non può presiedere alle
riflessioni sulla modalità della rivelazione e sul rivelatore un tipo di
pensiero che è comandato da categorie di potenza, da termini di dominio, di
vittoria, da categorie di sapienza e di gloria che si impone dall’alto. Ogni
fenomeno ha bisogno per venir rivelato di un approccio che sia conforme
all’entità del fenomeno. Se voglio conoscere l’identità fisico-chimica uso il
metodo elaborato da Galilei in poi, che è un metodo guidato dal pensiero
matematico; ma a un fenomeno d’amore non mi accosto con un criterio fisico e
una lista di formule. Se la rivelazione è condiscendenza, condiscendenza
nella quale Dio rimane il Trascendente, la rivelazione fenomeno d’amore, il
Dio trascendente dovrà essere il Dio che ci trascende, che ci supera in
quanto è amore, in quanto è potenza sì, ma potenza d’amore, in quanto è
sapienza sì, ma sapienza d’amore.
La rivelazione è un fenomeno d’amore. Questo - dicevo - è un punto decisivo, lo
dice la Dei Verbum al n.2: Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se
stesso e far conoscere il mistero della sua volontà. Piacque: dipende dalla
sua libera scelta, assolutamente insindacabile, che ha la sua ragione
d’essere soltanto in Dio e in questa sua compiacenza di rivelare se stesso e
il suo atteggiamento verso di noi, rivelare se stesso così come Egli è per
noi.
Nella sua bontà: la prima
parola che viene usata è quella della bontà. La sapienza stessa che
giustamente subito dopo viene citata, é una sapienza relativa alla bontà; e
il Concilio poteva anche aggiungere, ma non l’ha fatto per non prestare
fiato a certi equivoci, poteva aggiungere anche nella sua potenza, ma anche
se avesse aggiunto tale parola, anche questa dovrebbe venire ricondotta alla
bontà. Continua poi il Concilio: Con questa rivelazione, Dio invisibile nel
suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi
per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Sono parole che
meriterebbero veramente di essere approfondite. Amore, amici; la rivelazione
instaura un rapporto di amicizia, deriva dalla volontà di Dio di aprire se
stesso in un atto di amore agli uomini, trattandoli come amici. La
rivelazione è quindi un fenomeno di amicizia, e non potrebbe essere
diversamente.
A chi io rivelo me stesso,
se qualche volta rivelo me stesso? A chi apro il segreto della mia intimità
umana, a chi faccio dono di me stesso confidando me stesso in questa
profondità, se non ad un amico? Questa è l’esperienza umana, molto familiare
a tutti noi, e sappiamo che è questo valore che dà all’amicizia la sua
particolare bellezza e preziosità. Essere amici significa aprirsi l’uno
all’altro, per farsi dono l’uno all’altro ed accogliersi.
La rivelazione è inscritta
in questa logica: Dio se si rivela lo fa semplicemente per aprire se stesso
all’uomo, per donare veramente se stesso in questa confidenza, in questa
condiscendenza che porta Dio accanto all’uomo, che lo porta dentro l’uomo,
perché la tensione dell’amore sta nel tentativo di trasformarsi l’uno
nell’altro rimanendo se stessi per poter godere di donarsi all’altro e di
ricevere il dono dell’altro.
Guai infatti se dovesse
scomparire l’alterità che è condizione indispensabile perché ci possa essere la
fusione reciproca dell’amicizia e l’apertura con la quale ci si abbandona
tendenzialmente l’uno all’altro per essere l’uno nell’altro.
La condiscendenza del Dio
trascendente quando si rivela è una condiscendenza che tende all’immanenza,
una immanenza che naturalmente non annulla la trascendenza di Dio, ma porta
la trascendenza di Dio dentro di noi. Tutto questo o è amore, amore
infinito, oppure è del tutto inesplicabile, è puro accostamento di parole
senza significato.
Solo l’esperienza
dell’amore, solo a partire da questa esperienza dell’amore e dell’amicizia,
noi riusciamo ad intravedere cosa significhi rivelazione di Dio, Dio che si
rivela, l’uomo al quale Dio si rivela. Accettato questo presupposto,
che la rivelazione è dall’inizio alla fine un fatto d’amore, allora anche le
modalità della rivelazione, l’espressione storica concreta della
rivelazione, il rivelatore, deve portare non l’immagine della potenza e
della sapienza, ma il carattere dell’amore.
Il rivelatore non può
essere semplicemente una personalità sfolgorante di potenza e di sapienza,
ma deve essere una personalità sfolgorante di amore; deve essere la
personificazione dell’amore, la sostanza pura dell’amore: amore al servizio
del quale vengono mobilitate tutte le altre energie, potenza e sapienza
comprese. Per questo solo l’amore è credibile, per questo solo la
rivelazione e il rivelatore che portano i tratti dell’amore, che sono
sostanziati d’amore, sono credibili. Non è credibile una rivelazione, un
rivelatore che avvenisse solo all’insegna della sapienza e della potenza.
La rivelazione è credibile solo se
porta l’immagine dell’amore. Solo l’amore è credibile come forma, come modalità
storica di un’autentica rivelazione di Dio. Solo un uomo che sia amore può
essere autentico portatore nel mondo della rivelazione di Dio. Solo nello spazio
dell’amore di Dio pianta le sue tende nel mondo. Solo se dalla presenza del
rivelatore si irradia amore, il rivelatore merita di essere preso in
considerazione come possibile rivelatore. Se invece un uomo dovesse portare solo
una logica di dominio, si dovrebbe a priori escludere la possibile
manifestazione di Dio. Forse avevano ragione gli uomini come Platone, come il
libro della Sapienza, come il DeuteroIsaia, quando proponevano, come massima
espressione della presenza del Giusto, giustificante gli altri, appunto un
uomo crocifisso, per dire l’uomo della sofferenza. Perché l’uomo crocifisso?
Perché solo l’amore è credibile.
Ma - direte - perché deve
essere crocifisso? Perché questo amore deve assumere queste forme
raccapriccianti? Perché l’amore in questa forma umiliata, calpestata? La
risposta, penso, non é difficile: se la rivelazione è condiscendenza, fino
all’immersione nella nostra situazione umana, immersione che lo porta a
trasformarsi per essere autentico rivelatore, per essere autentica parola,
come potrebbe scendere nella nostra storia, grondante lacrime e sangue,
fatta di dolore, fatta di angoscia, fatta spesso di disperazione, se non
diventando amore sofferente? Non dunque un amore qualsiasi, ma un amore che
nell’impatto con questo mondo di male, di morte, diventa amore
misericordioso che condivide, che partecipa, si inserisce nel gioco, nel
dramma dell’esistenza umana.
Perché, dice Giovanni Paolo II,
misericordia è il nome che assume l’amore, è la natura stessa dell’amore
quando si imbatte nel male, nel dolore, nella morte per cercare di vincerli,
di superarli, di trasfigurarli dal di dentro, non per contatto superficiale,
non con un tocco di bacchetta magica, ma dal di dentro.
Solo così la rivelazione è pura condiscendenza di Dio nella
nostra condizione di peccatori, devitalizzati, condannati alla morte non
solo fisica. Se l’amore porta Dio ad essere dove noi veramente siamo,
l’atterraggio di Dio non può essere un atterraggio morbido, lo deve portare a
compromettersi fino in fondo con il nostro dramma umano. Il rivelatore è un uomo
crocifisso, perché solo l’amore è credibile, ma un amore nella nostra condizione
umana è credibile solo se è l’amore misericordioso che fa sua la miseria umana. |