L'IMPREVEDIBILE  E'  ACCADUTO IN

GESU'  DI  NAZARETH

 

Interrogativi

 

 

Teologia fondamentale

 

Che cos’é la teologia fondamentale? È la riflessione teologica con la quale si cerca di giustificare anche razionalmente la nostra adesione di fede. Naturalmente con questo non si vuole ridurre il mistero cristiano semplicemente entro l’ambito della ragione. Razionalizzare il soprannaturale sarebbe uno svuotare il mistero cristiano del suo specifico. La teologia fondamentale vorrebbe quindi rendere ragione della nostra speranza, di quella speranza alla quale noi affidiamo la nostra vita. Capita spesso oggi di avere paura di accostare i contenuti del nostro credo al pensiero razionale, quasi che la nostra adesione a Cristo e alla Chiesa venisse intaccata o quasi crollasse al contatto con il pensiero critico e razionale. Si pensa che l’essere credenti sia possibile solo a un patto: che si rinunci a pensare. Viviamo quindi in questa dissociazione, in questa schizofrenia: razionali per quanto riguarda il resto della nostra vita, e spaventati di applicare le nostre categorie mentali, il nostro pensiero critico nell’ambito della fede. La teologia fondamentale vorrebbe quindi aiutare ad uscire un pochino da questo disagio, e comprendere che non è affatto vero che per essere credenti bisogna rinunciare a pensare, che non è affatto disonestà intellettuale l’atto di fede perché se per essere credente uno dovesse essere totalmente incoerente e disonesto, se per aderire a Cristo dovesse rinunciare ad essere uomo che pensa, allora avrebbe ragione ad avere un momento di dubbio, allora avrebbe ragione a scegliere di essere uomo. La teologia fondamentale non pretende comunque di risolvere tutto, non ha la presunzione di offrire certezze incrollabili, però vuole offrire una traccia seguendo la quale dovrebbe essere possibile ridurre questo malessere che oggi è particolarmente diffuso: malessere del cristiano che crede di poter essere tale solo se si rifiuta di essere uomo di pensiero, uomo di cultura, uomo che ricorre alle risorse autentiche della ragione e dell’intelligenza. Anche Papa Giovanni Paolo II nei suoi discorsi esorta continuamente al connubio tra fede e ragione, fede e cultura.

 

 

Gli interrogativi dell’uomo

 

Iniziamo con l’uomo, con l’enigma che noi siamo, un enigma che noi viviamo anche quando non ci poniamo esplicitamente la domanda uomo chi sei? E’ sempre presente dentro di noi questo interrogativo, per il quale ognuno ha una risposta, data non tanto da elaborazioni o formulazioni complesse, quanto dalla vita concreta. Una risposta tuttavia mai data una volta per sempre: è una risposta in cammino, che rientra in una ricerca e in un agire mai compiuto, una risposta che attende sempre nuove integrazioni, proiettata nella speranza sempre al di là di se stessa. E qui sta la grandezza dell’ uomo, sta nel fatto che egli si interroga su se stesso, un animale non si interroga su se stesso. E’ lo specifico umano, quello che lo contraddistingue da tutto, il fatto di porre in discussione se stesso, tutto se stesso, e non solo una parte di sé. In questo interrogarsi - chi sono io? che ci sto a fare? dove mira questa successione di giorni, che ho la beatitudine o la condanna di dover passare? che senso ha il mio fare? quale sarà il mio futuro e il futuro dell’umanità nella quale sono immerso? - sta la premessa e la base per le risposte e le scelte determinanti. Questo interrogarsi, questo dubbio quasi su tutto è la caratteristica dell’uomo che lo distingue da ciò che è infraumano; la possibilità di prendere le distanze da se stesso, quasi porre se stesso di fronte a sé e tutta la realtà di fronte a se stesso, per sollevare un grande punto interrogativo. Si potrebbe obiettare che partire dal dubbio non è il metodo migliore per avvicinarsi al vero. Per me invece è una cosa molto suggestiva e illuminante, perché questo uomo che dubita, che dentro di sé porta questa inquietudine è qualche cosa di grande. Certo, è precarietà interrogare, ma non è questo uomo - che nella sua precarietà, nella sua debolezza, nella sua limitatezza, deve interrogare - qualche cosa di veramente grande, di veramente unico? Perché vuol dire che questo uomo, questo essere singolare che si interroga, è presente a se stesso, ha coscienza di sé. Per questo io andrò avanti a base di domande, non voglio trasmettere chissà quale dottrina rifinita. Non sono però domande buttate lì così, tanto per aumentare i problemi, ma perché ciascuno le elabori per se stesso, e rielaborandole potrà trovare già le vie di una risposta. Chi sono dunque io che in tutto quello che dico, penso, faccio, sono presente a me stesso, in modo che ho la consapevolezza di essere quel soggetto che è il principio, la sorgente di tutte queste attività?

 

 

L’interrogativo su Dio

 

Che cosa c’entra tutto questo con la teologia fondamentale? C’entra perché questo uomo che si interroga ha già posto una questione fondamentale, la questione su Dio; mentre pone in discussione se stesso - ed è impossibile essere uomini senza mettere in discussione se stessi - quest’uomo ha già implicitamente posto la questione su Dio. Perché? Perché mentre si pone tutti gli interrogativi che abbiamo detto prima, riconosce di essere finito, di essere limitato, di non essere il tutto, di non essere la pienezza della totalità. Perché una realtà che fosse il tutto, che fosse la pienezza delle perfezioni, questa realtà non si interrogherebbe su se stessa. La pienezza, ammesso che esista, non è problema a se stessa. Non è pensabile che uno che è totalmente, pienamente realizzato si interroghi, si chieda chi sono io, non solo come domanda, ma come interrogativo, come tormento di tutta l’esistenza. Quindi chi è così grande da potersi mettere in discussione è al contempo così piccolo da non poter inglobare in sé tutta la pienezza, è così piccolo da essere finito, limitato: l’uomo che interroga si presenta a noi come un mistero di grandezza e di piccolezza, una canna pensante  lo chiamava Pascal. L’essere che si riconosce finito pone già la questione di Dio. Si potrebbe anche obiettare che l’essere che si dichiara finito proclama la sua finitezza e basta, e la finitezza in sé non parla di Dio. Infatti oggi è proclamato da quasi tutti i tetti che l’uomo è rinchiuso nella sua finitezza, è rinchiuso nel suo mondo angusto e finito e insieme grande e bello, ma comunque limitato, racchiuso in questa finitezza, senza la possibilità di uscirne. Quindi è inutile che cerchi realtà infinite. Si potrebbe addirittura obiettare che l’uomo affermando la sua finitezza, nega o esclude Dio. Non è vero. Poniamoci una domanda: come mai l’uomo potrebbe farsi l’idea del finito, come potrebbe giudicarsi finito se in qualche modo non portasse dentro di sé, viva ed attuale, anche se forse repressa, dimenticata, una certa intuizione, un certo presagio, un certo presentimento di una infinitezza? Ognuno deve rispondere per se stesso, non si può delegare la risposta a dimostrazioni come i teoremi della matematica. Chi riconosce la sua finitezza deve in qualche maniera aver messo la testa fuori dal finito, misurare se stesso su un confine infinito. L’uomo che si interroga, per poter interrogare, già prima di poter dubitare deve essere in un certo qual modo immerso in un orizzonte infinito, deve essere aperto ad una dimensione che non è quella finita, deve aver aperto gli occhi su un mondo che non è semplicemente quello finito, cosicché, guardando da questo mondo dalla cui luce in qualche modo è illuminato, può dire io sono finito, tutto quello che esiste intorno è finito. Da questo momento l’uomo pone, magari senza accorgersene, la questione su Dio. La questione su Dio non emerge come una questione secondaria, come una questione raffinata, frutto di un ozioso trastullarsi con chissà quali pensieri, ma la portiamo dentro di noi, scolpita dentro di noi, altrettanto originaria come la nostra stessa esistenza. E questo giustifica il fatto che l’uomo non sia mai pago di ogni conquista, di qualsiasi obiettivo egli abbia raggiunto. E’ come se l’uomo portasse dentro di sé, scolpito nelle profondità del suo essere, un pregustare qualche cosa che dilaga al di là di ogni confine e che riempie tutti gli spazi possibili e immaginabili.

 

 

Dalle realtà limitate all’infinito

 

Pregustando questo l’uomo si accosta alle realtà limitate con uno slancio, con una sete che va molto al di là delle realtà limitate. E’ come se l’uomo corresse su questa strada dell’esistenza infatuato da un traguardo che è al di là e al di sopra di ogni tappa, di volta in volta raggiunta. Chi conosce, nonostante la fatica della conoscenza, desidera conoscere sempre di più, e se magari il singolo uomo ad un certo punto depone le armi e dice: basta!, gli rimane però dentro sempre il desiderio di conoscere di più. Ma 1’umanità nel suo insieme non si rassegna alle conquiste ormai raggiunte e se anche una conoscenza in più solleva cento nuovi problemi, l’uomo non si rassegna, ma persegue l’obiettivo di conoscere quei cento nuovi problemi, la soluzione dei quali ne solleverà mille o diecimila, ma va avanti instancabile, ebreo errante che non si dà mai pace. Ma cosa c’è dentro questo uomo, se non 1’attrazione scolpita dentro di qualche cosa, di un qualcuno, che fa saltare le prospettive limitate? E lo stesso è anche nel campo del lavoro umano. E lì ad un certo punto l’uomo si rassegna, portato anche dall’esperienza concreta, si rassegna alla precarietà, al1’insufficienza, però egli dentro di sé sente che la vita, la vera vita non dovrebbe includere alcun limite; per questo porta dentro di sé il sogno di una vita in un crescendo continuo, una vita che sia espansione senza limiti, una vita che sia trionfo sfolgorante su tutti i condizionamenti, su tutte le miserie, su tutte le difficoltà che solitamente incontriamo. Portiamo profondamente scritta in noi l’idea che di per sé la vita non dovrebbe comportare la mistura della morte, eppure sperimentiamo la nostra vita come intrisa di morte; ma noi sentiamo che questo non dovrebbe essere e viene allora da chiedersi: ma che vita è questa? Che cosa significa questa domanda? Vuol dire che istintivamente - da una istintività che nasce dall’intuizione di infinito - noi intravediamo che la vita dovrebbe idealmente essere, secondo l’idealità che ci sospinge dal profondo, solo vita, purezza cristallina di vita, vita insomma e basta. E questo vale anche per tutti i valori. Per affermare questo faccio appello all’esperienza, non dimostro niente, perché solo ciò che noi scopriamo attraverso il ricorso all’esperienza solo questo ci convince veramente. Esaminiamo un altro valore : il valore della bellezza: in sé non dovrebbe comportare nulla del contrario, cioè della bruttezza, tutti noi portiamo dentro il sogno di una bellezza che sia solo bellezza. Nessuno però ha mai incontrato questa: ogni bellezza che noi incontriamo ha sempre i suoi limiti; fosse anche perfetta, non è duratura, e nemmeno nel suo apogeo è splendida bellezza. Questo vale anche per la verità. Non dovrebbe comportare la minima venatura di menzogna o di finzione. La stessa cosa per il bene. Non ci irrita forse il fatto che quando incontriamo una persona buona, in questa stessa persona, dobbiamo constatare il limite? Perché anche la persona più buona che abbiamo incontrato nella nostra vita ad un certo punto ci delude con certe sue manchevolezze? E’ innato il desiderio di una bontà piena, di una bellezza piena, di una verità piena, anche se mai incontriamo questo, costretti, vorrei dire condannati a correre continuamente verso questa totalità, verso questa pienezza senza mai raggiungerla. E’ indiscutibile quindi che l’uomo è posto in un orizzonte infinito, che è mosso da una idealità infinita, che aspira da sempre a un tutto che non abbia limiti, che non abbia restrizioni. E qui si innesta il problema di Dio, come un problema non posto dall’esterno, ma nato con la nostra stessa esistenza. Si potrebbe a questo punto obiettare: tutta questa sete di infinito è frutto dell’immaginazione, dell’illusione dell’uomo, questo infinito non esiste, è solo da noi pensato, ipotizzato, ma tutto alla fine si rinchiude sempre nella nostra soggettività, perché questo infinito è solo desiderato, ma non esiste in se stesso, esiste solo nel nostro pensiero, nelle nostre attese, di fatto esiste solo l’uomo finito. E’ difficile rispondere a questa domanda. Non do risposte, affido alla vostra riflessione un altro interrogativo: questo io, così assetato di pienezza, di infinito, così investito dalla luce dell’infinito, così attirato da questa misteriosa pienezza, tutto questo dovrebbe essere sospeso al nulla? La tensione fondamentale della mia vita dovrebbe essere sollecitata, stimolata dal nulla, mirare verso il nulla, essere attratta dal nulla? Possibile che l’orizzonte, secondo il quale valuto che tutto è finito, sia il nulla, e il nulla l’unità di misura di tutto quello che incontro? È il nulla quello che mi fa sentire che ogni realtà è inappagante e incompleta?

 

Sommario