UN  VESCOVO  POETA,  UN  PADRE  DELLA  CHIESA  UNITA

 

Ambrogio assimila molto dalla cristianità orientale

e in essa è singolarmente venerato

 

 

 

1. La richiesta di una chiesa per gli ariani e il sostegno dei milanesi al loro vescovo

 

Dopo Aussenzio, Ambrogio ricostruì l'unità, promuovendo una capillare formazione alla fede: nacquero così i trattati su "La fede", su "Lo Spirito Santo", su "Il mistero dell'incarnazione del Signore".

Quando poi nella primavera del 385 e del 386, Giustina pretese una chiesa per il culto ariano, Ambrogio trovò la comunità milanese compatta con lui nel rifiuto.

Il picco del contrasto si ebbe nella settimana santa del 386, e il pieno scioglimento della tensione, con la resa della corte, si raggiunse nel giugno successivo, quando il vescovo rinvenne i martiri Protaso e Gervaso.

Non solo egli poté mostrare come i martiri ritrovati avessero "scelto" lui e non i suoi avversari, ma la grande celebrazione dell'intera Chiesa di Milano che ne conseguì in quei giorni mostrò alla corte che non esisteva alcuno spiraglio per una rinascita del movimento ariano.

 

Poiché sono solito non tacere, alla tua Santità [la sorella Marcellina], nulla di quanto avviene qui in tua assenza, sappi anche che abbiamo ritrovato i santi martiri. Infatti dopo che avevo consacrato una basilica, molti - come a una sola voce - cominciarono a sollecitarmi dicendo: "Dovresti consacrare questa basilica, come hai fatto per quella di Porta Romana [la basilica degli Apostoli, poi anche di san Nazaro]". Risposi: "Farò così, se troverò reliquie di martiri". E subito penetrò in me come l'ardore di un presagio.

In breve: il Signore mi concesse la grazia. Nonostante che lo stesso clero manifestasse qualche timore, feci scavare la terra nella zona davanti ai cancelli dei santi Felice e Nabore. Trovai indizi probanti; con l'aiuto anche di quelli cui avrei dovuto imporre le mani [cioè ossessi, che attendevano di essere esorcizzati], i santi martiri  cominciarono a emergere, sicché, mentre rimanevamo ancora in silenzio, l'osso d'un avambraccio fu afferrato e deposto presso il luogo del santo sepolcro. Trovammo due uomini di straordinaria statura, com'erano quelli dei tempi antichi. Tutte le ossa erano intatte, moltissimo era il sangue. Per tutti quei due giorni [17 e 18 giugno] ci fu un immenso concorso di popolo. In breve: le profumammo tutte, l'una dopo l'altra, e quando ormai era imminente la sera, le trasportammo nella basilica di Fausta; lì si vegliò l'intera notte e si compì l'imposizione delle mani. Il giorno seguente [19 giugno] le trasportammo nella basilica che chiamano Ambrosiana. Durante la traslazione un cieco fu guarito.

Io rivolsi al popolo questo discorso: "Nel considerare l'affluenza così ampia e senza precedenti della vostra assemblea e i doni della grazia divina che rifulsero nei santi martiri, mi giudicavo impari - lo confesso - a questo compito, e ritenevo che fosse impossibile per me illustrare esaurientemente con le parole un prodigio che a stento possiamo comprendere con la mente e percepire con le parole. Ma non appena si è cominciato a leggere il testo delle Sacre Scritture, lo Spirito Santo, che ha parlato per bocca dei profeti, mi ha concesso di esporre qualche concetto degno di un'assemblea così numerosa, della vostra attesa e dei meriti dei santi martiri... Ti ringrazio, Signore Gesù, perché hai suscitato per noi gli spiriti così potenti di questi santi martiri, in un momento in cui la tua Chiesa sente il bisogno di più efficace protezione. Sappiano tutti quali difensori io cerco, capaci di proteggermi ma incapaci di offendere. Tali difensori io desidero, tali soldati ho con me; non soldati del mondo, ma soldati di Cristo. Per tali difensori non temo alcun risentimento, perché quanto la loro protezione è più potente tanto è più sicura. Voglio che essi difendano anche quelli che me li invidiano. Vengano, dunque, e vedano le mie guardie del corpo: da tali armi non rifiuto di essere circondato... Queste vittime trionfali si avanzano verso il luogo dove Cristo è offerta sacrificale. Ma egli, che è morto per tutti, sta sull'altare; questi, che sono stati riscattati dalla sua passione, staranno sotto l'altare. Questo posto avevo scelto per me, aveva rivelato al popolo il giorno prima nell'omelia, perché è giusto che un vescovo riposi dove era solito offrire il sacrificio; ma a queste vittime sacre cedo la parte destra: questo luogo era dovuto ai martiri" (Ambrogio, Lettera 77 a Marcellina, l-3.10.13: SAEMO 21, pp.155,157,161,163).

 

Dal discorso di sabato 20 giugno, quando i martiri furono deposti nella basilica Ambrosiana:

 

"Le solite Persone [gli ariani] vedono di malocchio questa vostra affluenza e, siccome non la possono sopportare nella gelosia del loro animo, ne detestano il motivo e giungono a così folle stoltezza da negare i meriti dei martiri di cui persino i demoni riconoscono i miracoli. Ma ciò non desta meraviglia, perché la malafede degli increduli è così grande, che spesso è preferibile l'ammissione del diavolo...

[Gli ariani] sostengono che un cieco non ha riacquistato la vista, ma questi non smentisce d'essere stato guarito. Egli dichiara: "Ora vedo, mentre prima non vedevo", e lo dimostra coi fatti. Costoro negano il miracolo, perché non possono negare il fatto. È un uomo conosciuto, quando ci vedeva era addetto a pubblici servizi: si chiama Severo, esercita il mestiere di macellaio, aveva dovuto abbandonare il lavoro quando gli era sopravvenuta questa menomazione. Chiama a testimoniare le persone che prima lo mantenevano con i loro aiuti; fa venire, perché attestino la grazia da lui ricevuta, quelli che erano testimoni diretti della sua cecità. Proclama di aver riacquistato la vista non appena ebbe toccato le frange della veste che ricopre le sacre reliquie. Mi chiedo, a questo punto, se nutrano invidia per me o per i santi martiri. Se per me, forse che da me si compiono prodigi, per opera mia, nel mio nome? Perché dunque m'invidiano ciò che non mi appartiene? Se nutrono invidia per i santi martiri - infatti, se non invidiano me, è chiaro che devono per forza invidiare i martiri -, dimostrano che i martiri ebbero una fede diversa dalla loro. In caso contrario infatti, non invidierebbero le loro opere; se cioè non ritenessero che quelli ebbero una fede che essi non hanno: quella fede convalidata dalla tradizione dei padri, che gli stessi demoni non possono negare, ma che gli ariani negano" (ivi, 16.17.19-20: SAEMO 21, pp.163,165,167).

 

 

2. I giorni della tensione e gli inni di Ambrogio

 

La testimonianza sugli inni è legata alla vicenda della richiesta della chiesa per gli ariani.

 

Non da molto tempo, la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare con grande impegno da parte dei fratelli, unendo voci e cuori. Era appunto un anno o non molto più da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, perseguitava il tuo fedele Ambrogio, indotta dall'eresia nella quale era stata sedotta dagli ariani. La folla dei fedeli montava la guardia nella chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, servo suo. Lì mia madre, serva tua, distinguendosi tra i primi nella sollecitudine e nella veglia, viveva di preghiere. Noi, ancora non riscaldati dal calore del tuo spirito, tuttavia eravamo commossi dallo sbigottimento e dalla costernazione della città... Allora si istituì la consuetudine di cantare inni e salmi secondo il costume delle regioni d'oriente, perché il popolo non crollasse per il tedio dell'afflizione e da quel tempo fino ad oggi questo uso si è conservato, poiché molte, anzi quasi tutte le tue comunità anche negli altri paesi del mondo lo hanno imitato (Agostino, Le confessioni, IX, 7,15: G. Biffi, Ambrogio Vescovo. Attualità di un maestro, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, p.114).

In quell'occasione per la prima volta nella Chiesa milanese furono introdotti il canto antifonato e gli inni, e cominciarono a essere celebrate le vigilie: questi usi liturgici persistono fino a oggi non solo in quella Chiesa, ma in quasi tutte le province d'Occidente (Paolino, Vita di Ambrogio, 13,3: Paolino di Milano, Vita di sant'Ambrogio. A cura di Marco Navoni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996, pp.71,73,75).

 

Probabilmente, per quanto riguarda il canto antifonato, Ambrogio divise in due cori l'assemblea affidando a ciascuno di essi alternatamente un versetto dopo l'altro (o introdusse il ritornello); quanto alla veglie di preghiera, egli dovette ordinarle adattandole alla partecipazione del popolo.

Era quindi un modo intelligente per permettere a tutti di sentirsi attivi nella preghiera liturgica.

Quanto infine agli inni, in quei frangenti poterono essere validamente utilizzati, incontrando una orale partecipazione di popolo e offrendosi poi all'attenzione ammirata dell'intera cristianità occidentale.

Per comprendere come la gente fosse coinvolta nel canto degli inni e come ne venisse una compattezza di intenti fra vescovo e popolo, basta ascoltare un brano del discorso che Ambrogio pronunciò contro Mercurino Aussenzio.

 

Dicono che il popolo è stato ammaliato dall'incantesimo dei miei inni. Proprio così: non lo nego. È un grande canto magico (carmen), il più potente di tutti. Che cosa infatti potrebbe essere più forte della confessione della Trinità, quale ogni giorno il popolo canta a una sola voce? A gara tutti vogliono proclamare la loro fede, tutti hanno imparato a lodare in versi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Sono dunque diventati tutti maestri, quelli che a malapena potevano essere discepoli (Ambrogio, Contro Aussenzio = Lettera 75a, 34: SAEMO 21, p.135).

 

Si può immaginare che Ambrogio fosse accusato di avere come "stregato", ammaliato, il popolo (cfr. carmen, che significa allo stesso tempo "incantesimo" e "canto, poema innodico").

E si comprende pure come la sapiente pedagogia di Ambrogio avesse incanalato le sue istruzioni su questi temi in composizioni memorizzabili con il canto, con strofe brevi, ben ritmate, grazie alle quali il popolo che non sapeva certo "masticare" teologia, acquisiva competenza dottrinale, assimilava difficili verità teologiche e ne diveniva annunciatore.

Ambrogio usò ancora I'immagine dell'incantesimo nelle omelie su "I sei giorni della creazione", assicurando che il vero Incantatore è Cristo, che rende inoffensivo qualsiasi altro ammaliamento:

 

Molti attaccano la Chiesa ma gli incantesimi dell'arte magica non possono nuocerle. Non hanno alcuna efficacia gli incantatori là dove ogni giorno si canta il cantico di Cristo. La Chiesa ha per incantatore il Signore Gesù, per mezzo del quale ha reso inoffensivi gli incantesimi degli incantatori e i veleni dei serpenti (Ambrogio, I sei giorni della creazione, VI, 8,33: SAEMO 1, pp.233).
 

Basta vedere, a conferma, come i fedeli entrano in Chiesa per esprimersi uniti nel canto:

 

In quale modo potrei descrivere compiutamente tutta la bellezza del mare come la contemplò il Creatore? Perché aggiungere parole? Che altro è il canto delle onde se non una specie di canto del popolo? Perciò opportunamente spesso si paragona il mare la Chiesa quando il popolo entra in folla: dapprima ne riversa le ondate da tutti gli ingressi, poi, mentre i fedeli pregano in coro, scroscia come per il rifluire dei flutti, allorché il canto degli uomini, delle donne, dei fanciulli, a guisa di risonante fragore d'onda, fa eco nei responsori dei salmi. Che dire dell'acqua che lava il peccato, mentre spira apportatore di salvezza il soffio dello Spirito Santo? (Ambrogio, Esamerone, IV, 5,23: SAEMO 1, pp.133,135).

 

 

3. La conversione di Agostino

 

È ora doveroso un cenno ad Agostino, che fu presente alle vicende di quei mesi.

Agostino giunse infatti a Milano nell'autunno del 384 quale oratore di corte e ripartì poco dopo aver ricevuto il battesimo da Ambrogio nella notte fra il 24 e 25 aprile 387.

Era giunto amareggiato dallo scetticismo, e fu inviato da Simmaco proprio perché anticattolico: un curioso gioco provvidenziale affidava al pagano Simmaco di mandare "abell'apposta" il non credente Agostino al luogo in cui avrebbe trovato la via della conversione!

Ma che cosa trasformò Agostino? E che influsso ebbe Ambrogio nella sua conversione?

Ecco il racconto del primo incontro, di protocollo, fra i due:

 

Quell'uomo di Dio mi accolse come un padre e gradì la mia visita proprio come un vescovo (peregrinationem meam satis episcopaliter dilexit. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa; bensì come persona che mi mostrava della benevolenza (Agostino, Le Confessioni, V, 13,23: NBA 1, p.139).

 

Ambrogio non fu freddo o indifferente, come poteva aspettarsi Agostino: lo accolse semplicemente "in stile impeccabilmente episcopale" (satis episcopaliter), cercando cioè di non indisporre il visitatore e di metterlo piuttosto a suo agio.

Agostino ebbe l'impressione di un'accoglienza benevola, ma l'amore che nutrì per Ambrogio fu più di rispetto e di ammirazione che di frequentazione:

 

Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione: volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m'interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo. La soavità della sua parola mi incantava (ivi).

 

Soprattutto Agostino aveva bisogno di trovare uno che discutesse con lui i suoi infiniti problemi, che gli suggerisse indicazioni per la ricerca intellettuale e stimoli per la sua conversione morale: e quest'uomo fu Simpliciano, colto presbitero milanese che era stato vicino al neofita Ambrogio.

Quando invece Agostino andò da Ambrogio, lo trovò tanto assorto da non osare disturbarlo:

 

Lo stesso Ambrogio era per me un uomo qualsiasi, fortunato secondo il giudizio mondano perché riverito dalle massime autorità; l'unica sua pena mi sembrava fosse il celibato che praticava. Delle speranze invece che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza, delle consolazioni che trovava nell'avversità, delle gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore, di tutto ciò non potevo avere né idea né esperienza. Dal canto suo ignorava le mie tempeste e la fossa ove rischiavo di cadere. Non mi era infatti possibile interrogarlo su ciò che volevo e nel modo che volevo. Caterve di gente indaffarata, che egli soccorreva nell'angustia, si frapponevano fra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima alla lettura. Nel leggere i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano.

Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l'ingresso e non si usava preannunziargli l'arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Poi ci allontanavamo, supponendo che avesse piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri. Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell'autore che leggevo o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volume inferiore ai suoi desideri. Ma anche la voce che la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale. Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello.

Certo è che non mi era proprio possibile interrogare quel santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, se non su cose che si potessero ascoltare in fretta (ivi, VI, 3,3-4: NBA 1, p.149).

 

Agostino incontrò piuttosto Ambrogio nel suo ministero episcopale, e nella sua comunità, in quel popolo fedele di cui aveva percepito la vitalità in molte occasioni: nel contrasto con la corte di quei mesi e nel rinvenimento dei martiri, ma ugualmente nei ritmi abituali della vita comunitaria.

Si imbatté cioè in una Chiesa dall'intensa vita cristiana, che sapeva offrire una testimonianza concreta e positiva dell'esperienza della fede: nella predicazione della Parola, nella celebrazione liturgica, nella condivisione nella comunità, nell'organizzazione della carità, nell'impegno ascetico che dava vigore alle energie migliori:

 

Vedevo la Chiesa piena, e in essa l'uno avanzare in un modo, l'altro in un altro (ivi, VIII, 1,2: NBA 1, p.219).

 

Grazie all'esperienza della comunità cristiana sapientemente guidata dal vescovo Ambrogio, grazie a tutte queste testimonianze, il lavorio interiore di Agostino giunse infine alla conversione.

Nel 421, ormai 35 anni dopo la conversione, ricordando con riconoscenza Ambrogio, scriveva:

 

Ecco un altro eccellente dispensatore di Dio che io venero come padre: egli mi ha generato in Cristo Gesù con il vangelo, e come ministro di Cristo mi ha lavato con il lavacro di rigenerazione. Parlo di sant'Ambrogio, del quale io stesso ho sperimentato la grazia, la costanza, le fatiche, i pericoli per la fede cattolica nelle opere e nei discorsi, e del quale insieme a me tutto il mondo romano non esita a celebrare le lodi (Agostino, Contro Giuliano, I, 3,10: NBA 18, p.445.)

 

E, ricordando i giorni del battesimo, tornava ad accennare alla liturgia e agli inni:

 

In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano. Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici (cfr. Ef 5,19), che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene (Agostino, Le Confessioni, IX, 6,14: NBA 1, p.271).

 

Infine, alcune pagine dopo, faceva cenno all'inno della sera, il "Deus Creator omnium", confessando di aver trovato conforto in alcune sue strofe, quando a Ostia gli morì la madre.

 

 

4. Un esempio: l'inno "al canto del gallo"

 

Per gli inni di Ambrogio a noi pervenuti considerati autentici sono probabilmente tredici: al canto del gallo, all'aurora, all'ora terza, nell'ora dell'accensione, per il natale del Signore, per le epifanie del Signore, per il giorno di Pasqua, per la festa di san Giovanni evangelista, per la festa dei santi Pietro e Paolo, per san Lorenzo, per sant'Agnese, per i santi Vittore Nabore Felice, per il ritrovamento dei santi Protaso e Gervaso.

Prendiamo come esempio l'inno al canto del gallo (Aeterne rerum conditor), facendolo seguire da un testo in prosa in cui Ambrogio sviluppa lo stesso tema.

 

O creatore eterno delle cose,
che regoli il giorno e la notte
e i tempi diversi avvicendi
ad alleviarci la noia,

già s'ode l'araldo del giorno,
che veglia nel profondo della notte:
è come luce a chi cammina al buio,
delle notturne vigilie è segnale.

Desta a quel canto la stella lucifera
dalla tenebra libera il cielo;
dei vagabondi la torma, a quel canto,
abbandona le strade del malfare.

Si rincuora a quel canto il navigante
poi che si placa la furia del mare;
anche colui che è Pietra della Chiesa
a quel canto deterse il suo peccato.

Alacri dunque e animosi leviamoci:
il gallo scuote chi a giacere indugia,
rimbrotta i dormiglioni
e chi si nega accusa.

Se il gallo canta, torna la speranza,
e rifluisce ai malati il vigore,
il bandito nasconde il pugnale,
negli smarriti la fede rivive.

Guarda, Gesù, chi vacilla,
emendaci col tuo sguardo.
Se tu ci guardi, le colpe dileguano
e il peccato si stempera nel pianto.

Tu, luce, ai sensi rifulgi
e dissipa il sonno dell'anima.
Te la primizia della voce canti,
prima che agli altri il labbro a te si sciolga.

 

(Ambrogio, Inno al canto del gallo: SAEMO 22, pp.31,33,35).

 

Questi contenuti sono resi in prosa in un'omelia de "I sei giorni della creazione", che parla del gallo.

Il ritmo poetico è per altro conservato anche in queste espressioni (spesso la prosa di Ambrogio è essa stessa altamente lirica, ritmata, con cadenze che le danno l'andamento vivo di un carme).

 

Il canto del gallo è gradevole nella notte: non solo gradevole ma per di più utile, perché come un buon coinquilino sveglia chi ancora sonnecchia, avvisa chi è già desto, conforta chi è in viaggio, indicando con il suo squillante segnale che la notte sta per terminare. Al suo canto il brigante abbandona l'agguato e la stella del mattino ridestandosi si leva e illumina il cielo; al suo canto il navigante ansioso depone la sua angoscia, e ogni tempestosa procella, suscitata spesso dai venti della sera, si placa; al suo canto l'animo devoto di slancio si dà alla preghiera e riprende inoltre la lettura interrotta; al suo canto infine la stessa pietra della Chiesa lava la colpa commessa con la sua negazione prima che il gallo cantasse (cfr. Mt 26,74-75). Al suo canto ritorna in tutti la speranza, si allevia la pena dell'infermo, si attenua il dolore della ferita, si mitiga l'ardore della febbre, in chi è caduto ritorna la fiducia; Gesù fissa con lo sguardo chi vacilla, richiama chi è nell'errore. Così rivolse a Pietro il suo sguardo e subito la colpa scomparve, fu cacciata la negazione, seguì la confessione del peccato (cfr. Lc 22,61,-62)... Guarda anche noi, Signore Gesù, affinché anche noi riconosciamo i nostri errori, laviamo con lacrime di pentimento la nostra colpa, meritiamo il perdono dei peccati. Di proposito abbiamo prolungato il nostro discorso, perché anche per noi cantasse il gallo e desse un aiuto alle nostre parole, affinché, se nel discorso si fosse insinuato un qualche errore, tu, o Cristo, ce ne concedessi il perdono. Concedimi, ti prego, le lacrime di Pietro; non voglio il tripudio del peccatore. Piansero gli Ebrei, e furono liberati attraverso il mare, mentre le onde si spalancavano davanti a loro... Pietro pianse il suo errore e meritò di cancellare gli errori altrui.

Ma ormai è giunto il tempo di finire, concludendo il discorso, il tempo in cui è meglio tacere o piangere, il tempo in cui si concede generosamente il perdono dei peccati. Anche per noi canti nel sacro rito questo mistico gallo, perché nelle parole ha cantato il gallo di Pietro. Pianga per noi Pietro, il quale seppe piangere a dovere per sé, e faccia rivolgere verso di noi il pio volto di Cristo. Si affretti la passione del Signore Gesù che ogni giorno condona le nostre colpe e opera in noi la grazia del perdono (Ambrogio, I sei giorni della creazione, VIII, 24, 88-90: SAEMO 1, pp.337,339,341).

 

Che la prosa di Ambrogio sia poetica può essere rilevato in questo bel brano, che è tutto un concatenarsi, ritmato, di attributi rivolti a Cristo.

 

Egli stesso è in tutto la nostra vita.
La sua divinità è vita,

la sua eternità è vita,
la sua carne è vita,
la sua Passione è vita.
 

Perciò Geremia disse: "Vivremo alla sua ombra" (Lam 4,20).

 

Ombra delle ali è l'ombra della croce,
La sua morte è vita,
la sua ferita è vita,
il suo sangue è vita,
la sua sepoltura è vita,

la sua resurrezione è la vita di tutti.
Vuoi sapere che potenza di vita sia la sua morte?
"Nella sua morte siamo stati battezzali, affinché
con lui camminiamo in novità di vita" (Rom 6,3-4).

Ed egli stesso disse: "In verità in verità vi dico,
se il chicco di grano non cade in terra e non
muore, resta da solo; se invece morirà, porterà
molto frutto" (Gv 12,24).

È lui il chicco che si è dissolto ed è morto nel suo

corpo per noi, per portare molto frutto in noi.

Così la sua morte è frutto di vita.

Dunque ciò che è stato fatto in lui, è vita.

La carne è stata fatta in lui: è vita;

l'infanzia è avvenuta in lui: è vita;

il giudizio è stato fatto su di lui: è vita;

la morte è avvenuta in lui: è vita;

la remissione dei peccati è avvenuta in lui: è vita;

una ferita gli è stata inferta: è vita;

la derisione gli è stata fatta: è vita;

una spartizione è avvenuta a suo danno: è vita;

la sepoltura è stata fatta in lui: è vita;

la resurrezione è avvenuta in lui: è vita.

Vedi quante cose sono state fatte in lui, dalle quali è

stato prodotto il capovolgimento della nostra vita,

affinché ci fosse restituita quella vita che era stata

perduta.

Infine è stato fatto oggetto di vendita: è vita;

un riscatto è avvenuto in lui: è vita.

È stato venduto da Giuda per essere ucciso, acquistato

dai Giudei per essere ucciso, affinché dal suo
sangue prezioso noi fossimo riscattati per vivere.

Questa è la vita che è avvenuta, questa è la vita che
si è manifestata, questa è la vita che abbiamo veduto,

questa è la vita che era presso il Padre, poiché
egli, che era in principio, egli stesso è nato dalla
Vergine per essere vita in favore di quelli che erano
destinati alla morte.

 

(Ambrogio, Commento al salmo 36, 36: SAEMO 7, pp.195,197).

 

 

5. Ambrogio e l'Oriente: la tematica cristologica

 

A differenza di Agostino, Ambrogio conosceva bene, oltre al latino, anche il greco, e, leggendo Padri e scrittori greci, ne seguiva il pensiero e ne riceveva un indubbio influsso.

Ma anche l'Oriente serbò singolare ed eccezionale ricordo e ammirazione del vescovo Ambrogio: anzitutto perché Ambrogio fu vescovo di una città residenza imperiale (e gli storici bizantini ne recensirono e ne ammirarono la "parrhesìa" verso gli imperatori), ma ancor più per i suo insegnamento sul Cristo uomo-Dio.

Partendo dalla sensibilità antiariana, Ambrogio rimarcò fortemente la divinità di Cristo e allo stesso tempo, quando il vangelo ne descriveva la "debolezza", sottolineò con affetto e riconoscenza l'umanità che il Verbo aveva assunto per noi.

Questo non solo lo avviò a riconoscere la benevolenza di Cristo nella sua condivisione con noi, ma ne favorì anche la ricerca di formule precise con le quali esprimere l'autentica fede cristiana.

Cominciamo con un brano nitido nelle definizioni (che utilizza il paragone del sole de Sal 18,6):

 

Cristo è Figlio di Dio, eterno dal Padre e nato dalla Vergine. Il santo profeta David lo descrive come un gigante perché è uno, biforme e di duplice natura (geminae naturae), partecipe della divinità e della corpo (consors divinitatis et corporis), "quale sposo che esce dal talamo, esulta come un gigante che si accinge a percorrere la strada" (Sal 18,6): sposo dell'anima in quanto Verbo, gigante della terra perché, per adempiere il suo compito in vista del nostro bene, pur essendo da sempre Dio eterno accettò i misteriosi eventi dell'incarnazione; non diviso ma uno (non divisus, sed unus), perché l'una e l'altra realtà sono uno (utrumque unus), e uno è nell'una e nell'altra realtà (unus in utroque), cioè sia nella divinità sia nel corpo. Non l'uno dal Padre e l'altro dalla Vergine (non alter ex patre et alter ex virgine), ma il medesimo in un modo dal Padre e in un altro dalla Vergine (idem aliter ex patre aliter ex virgine) (Ambrogio, Il mistero dell'incarnazione del Signore, 5,35: SAEMO 16, pp.397,399).

 

Una formulazione ancora più precisa era stata anticipata nel secondo libro de "La fede":

 

Manteniamo la distinzione tra la natura divina e la carne (distinctionem divinitatis et carnis)! In entrambe parla il solo Figlio di Dio, poiché nel medesimo si trova l'una e l'altra natura (utraque natura); anche se è il medesimo a parlare, non parla però sempre in un solo modo. Osserva in lui ora la gloria di Dio, ora le passioni dell'uomo. In quanto Dio, dice le cose che sono di Dio, poiché è il Verbo; in quanto uomo dice le cose che sono dell'uomo poiché parlava nella mia sostanza (Ambrogio, La fede, II, 9,77: SAEMO 15, p.165).

 

Infine una delle splendide pagine di meditazione sulle "debolezze" assunte da Cristo "per me", con la preghiera al Getsemani, quando la volontà di Cristo si interroga davanti a quella del Padre.

Da questa meditazione emerge che Cristo aveva una vera natura umana con tutte le sue facoltà (compresa la volontà umana e l'operatività umana) accanto a una vera natura divina, emerge poi che in questa natura umana Cristo nuovo Adamo ha pienamente obbedito al Padre (insegnando di nuovo all'uomo a fare della sua vita un'offerta gradita a Dio), emerge infine che le due volontà naturali, divina e umana, sussistenti nell'unico Verbo incarnato, unitamente concorrono alla nostra salvezza.

 

Cristo ha preso la mia volontà ha preso la mia tristezza. Non ho paura di nominare la tristezza, perché prédico la croce. Mia è la volontà che ha dichiarato sua, perché come uomo ha preso la mia tristezza, come uomo ha parlato e perciò dice: "Non come voglio io, ma come vuoi tu (Mt 26,39). Mia è la tristezza che ha preso con il mio stato d'animo perché nessuno esulta quando sta per morire. Per me patisce, per me è triste, per me soffre. Dunque, ha sofferto per me e in me, egli che per sé non aveva alcun motivo di soffrire (Ambrogio, La fede, II, 7,53: SAEMO 15, pp.151,153).

 

Ora la meditazione si trasforma in invocazione:

 

Tu soffri, dunque, Signore Gesù, non per le tue, ma per le mie ferite, non per la tua morte, ma per la nostra infermità, come dice il profeta: "Per noi soffre. E noi, Signore, abbiamo pensato che tu eri nelle sofferenze" (Is 53,4), mentre soffrivi non per te, ma per me... (ivi, II, 7,54: SAEMO 15, p.153).

 

Riprende poi la meditazione sulle "affezioni" umane di Cristo:

 

Come uomo esita, come uomo è turbato. Non è turbato come potenza, non è turbata la sua natura divina (divinitas), ma è turbata l'anima (Gv 12,17), è turbato perché ha assunto la fragilità umana. Proprio perché ha assunto l'anima, ha assunto le passioni dell'anima. Infatti, perché era Dio, non avrebbe potuto essere turbato o morire. Del resto disse: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46).

Dunque, parla come uomo, portando con sé le mie paure, perché quando ci troviamo nei pericoli pensiamo di essere abbandonati da Dio. Come uomo è turbato, come uomo piange, come uomo è crocifisso (ivi, II, 7,56: SAEMO 15, p.153).


Poi la conclusione, con la distinzione degli aspetti riferiti alla natura divina e alla natura umana e con espressioni di communicatio idiomatum (scambio fra le proprietà dell'una e dell'altra natura):

 

Perciò le parole che abbiamo letto "Il Signore della maestà è stato crocifisso" (1 Cor 2,8) non vanno intese nel senso che è stato crocifisso nella sua maestà, ma che il medesimo, Dio e uomo (idem deus, idem homo), Dio per la natura divina (per divinitatem) e uomo per l'assunzione della carne, Gesù Cristo, si dice "esser stato crocifisso il Signore della maestà": infatti, partecipe dell'una e dell'altra natura (consors utriusque naturae), cioè di quella umana e di quella divina, nella natura umana ha subito la passione, di modo che, se non si fa alcuna distinzione, si può dire che è "il Signore della maestà", colui che ha patito, e "il figlio dell'uomo, come sta scritto, colui che è disceso dal cielo" (Gv 3,13) (ivi, II, 7,58: SAEMO 15, p.155).

 

Per la loro chiarezza precorritrice e per la loro salda ortodossia, i testi del vescovo Ambrogio vennero frequentemente citati, proprio in Oriente da vari autori e in particolare dai concili di Efeso (431), di Calcedonia (451) e nel III di Costantinopoli (680/1).

 

 

6. ...aveva visto il Signore Gesù venirgli incontro e sorridergli

 

La predicazione di Ambrogio sul Cristo Figlio di Dio si era aperta sulla meditazione del Cristo uomo-Dio che condivide le nostre debolezze e si era espressa in una preghiera a Gesr). Al termine della vita era naturale che...

 

Nel medesimo luogo in cui giaceva (come abbiamo appreso dal racconto del santo Bassiano, vescovo della Chiesa di Lodi, che aveva udito ciò da Ambrogio stesso), mentre stava pregando con il predetto vescovo, aveva visto il Signore Gesù venirgli incontro e sorridergli (viderat Dominum Iesum advenisse ad se et adridentem sibi); e pochi giorni dopo ci fu strappato. E proprio nel momento in cui ci lasciò per tornare al Signore, circa dalle cinque del pomeriggio fino all'istante in cui spiro, pregò con le braccia aperte a forma di croce; e noi vedevamo le sue labbra muoversi, ma non riuscivamo a percepirne le parole. Anche Onorato, vescovo della Chiesa di Vercelli, mentre se ne stava ritirato a riposare nella parte superiore della casa, udì per tre volte la voce di uno che lo chiamava e gli diceva: "Alzati, affrettati, perché sta per morire". Allora disceso, gli porto il santo corpo del Signore; non appena, ricevutolo, lo ebbe deglutito, spirò (Paolino, Vita di Ambrogio, 47: Paolino di Milano, Vita di sant'Ambrogio. A cura di Marco Navoni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996, p.137).

 

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