DISCORSO  ALLA  CITTA'

PER  LA  VIGILIA  DI  SANT'AMBROGIO  2008

 

 

 

 

Milano, Basilica di Sant’Ambrogio

5 dicembre 2008

Primi Vespri della solennità di Sant’Ambrogio

Discorso alla Città

 

LA CITTA’ RINNOVATA DAL DIALOGO

 

Carissimi,

nel nome di sant’Ambrogio, patrono della nostra Città e della nostra Diocesi, rivolgo a tutti e a ciascuno di voi il mio saluto sincero e affettuoso.

Il santo, che in questi giorni ricordiamo e celebriamo, ha contribuito in modo straordinario a rendere unica e grande la storia di Milano. Anche oggi la sua testimonianza si offre a noi come prezioso apporto per continuare, grazie anche all’innegabile impegno dei cristiani, l’opera di costruzione di una comunità civile sempre più aperta e accogliente, amante della vera libertà, solidale, attenta alle esigenze di tutti, specie dei più deboli, capace di speranza e di coraggio.

Un compito, questo, che ci interpella tutti e che – ne sono sicuro – è la principale preoccupazione degli amministratori locali e di quanti  sono investiti dell’alta missione di governare e di sovrintendere alla res pubblica.

Sull’esempio di Ambrogio - uomo, vescovo, santo, che scelse di rimanere in continuo dialogo con la “sua” Città -, vorrei anch’io offrire il mio contributo, riflettendo questa sera con voi sul fondamentale tema del dialogo, vera e propria emergenza del nostro tempo, a Milano e non solo.

 

 

1. L’UOMO SAPIENTE E GIUSTO È L’UOMO DEL DIALOGO

 

Il dialogo non è uno tra i tanti atteggiamenti che l’uomo può assumere e vivere, ma è un tratto fondamentale, costitutivo, oso dire ontologico, della sua umanità. Il dialogo deve essere assunto come atteggiamento stabile nell’uomo: non sempre è dote innata, bensì – più spesso - è virtù che l’uomo sapiente sa ricercare e coltivare, anche a prezzo di fatica.

Così sant’Ambrogio scrive dell’uomo sapiente, commentando il versetto biblico «Lo stolto muta come la luna»[1]:

 

«Il sapiente non è abbattuto dal timore, non è mutato dal potere, non è esaltato dalla prosperità, non è sommerso dalla sventura. Dove c’è la sapienza, c’è la virtù dell’animo, ci sono la costanza e la fermezza. Il sapiente, dunque, è immutabile nell’animo, non è diminuito né accresciuto dal mutar delle cose né “vacilla come un bimbo così da essere sballottato da ogni vento di dottrina”, ma rimane perfetto in Cristo, “fondato nella carità”, “radicato” nella fede. Il sapiente dunque ignora i cedimenti delle cose e non sa essere mutevole d’animo, ma “risplenderà come il sole di giustizia”, che rifulge nel regno di suo Padre»[2].

 

Di nuovo, anche quest’anno, ci guida nelle nostre riflessioni il paradigma dell’uomo sapiente secondo Cristo, un uomo che in momenti a volte oscuri e critici resta immutabile nell’animo, non viene sballottato da ogni mutevole pensiero o dottrina, ma permane radicato nella sua fede e nella sua carità, segue sempre la bussola della giustizia. È certamente un ideale forte, questo, in un tempo di ideali deboli e sfocati, ma l’uomo che vediamo dedito al dialogo non può che essere così, libero e ben saldo nella sapienza.

Questa non è patrimonio esclusivo dei colti o degli studiosi, ma è per tutti, anche per i poveri, i semplici, gli umili, perché – lo riconoscono i credenti – scaturisce dalla sapienza di Cristo. Essa ci aiuta a “distinguere”, a capire in profondità il tempo, a discernere ciò che è bene da ciò che è male, a dare il vero peso alle realtà e alle vicende della vita, a muoversi secondo le ispirazioni che Dio suscita nella coscienza, a confrontarsi con gli altri.

Una sapienza che è profondamente alleata con la giustizia, come ci ricorda sant’Ambrogio nel suo libro sui “Doveri”:

 

«Risulta dalla Scrittura divina, più antica dei filosofi, che la sapienza non può esistere senza la giustizia, perché dove si trova una si trova anche l’altra. Con questa sapienza Daniele smascherò le menzogne di una falsa accusa per mezzo di un interrogatorio approfondito, sicché le risposte dei calunniatori si contraddissero tra loro. Fu compito della prudenza smascherare i colpevoli con la testimonianza della loro stessa voce, ma fu anche compito della giustizia mandare al supplizio i colpevoli e salvare l’innocente»[3].

 

E, dunque, la sapienza costruisce percorsi di giustizia, “regola” la vita sociale, difende l’innocente, tutela il più debole. Non è oggi questo uno dei compiti primari della civiltà e delle istituzioni? E di ciascuno di noi, che non si esercita in un amore generico bensì si fa operatore di giustizia e, per ciò stesso, diventa costruttore di pace e di speranza?

L’uomo sapiente e giusto sta “saldo nel suo cuore”, come ancora scrive il nostro patrono:

 

«State dunque saldi nel vostro cuore, affinché nessuno vi faccia vacillare, affinché nessuno possa farvi cadere (…). In voi non ci sia pigrizia, non ci sia bocca maligna, lingua piena d’amarezza. Non vogliate sedere in un’assemblea di uomini vani (…). Non vogliate ascoltare i detrattori del prossimo, perché, mentre ascoltate gli altri, non siate indotti a criticare anche voi il prossimo (…). Sta ritta invece la vedetta previdente, la sentinella vigilante, che monta di guardia all’accampamento (…). Chi sta ritto, sta attento a non cadere; chi sta ritto, non sa criticare; infatti le dicerie sono proprie degli sfaccendati, per opera dei quali si seminano le critiche, si diffonde la malignità…» [4].

 

Come non riconoscere in quest’uomo “saldo nel suo cuore” l’uomo del dialogo: l’uomo che non accetta le insinuazioni maligne; l’uomo vigilante, che sta di sentinella perché la sua sapienza non cada, per non divenire iniquo, per amare il suo prossimo?

Cristo stesso si offre a noi come mirabile esempio di uomo in dialogo: con il Padre anzitutto, con le persone del suo tempo, con chi gli era discepolo, con chi lo minacciava, con chi aveva visioni della vita e della storia differenti dalla sua. Un dialogo che in Gesù, pienezza di verità e sapienza incarnata, è appassionato e rispettoso appello alla libertà dell’altro, perché decida sempre  per il vero e per il bene.

 

 

2. ALLA RICERCA DI UN DIALOGO POSSIBILE

 

Avendo nel cuore la presenza di Cristo, testimonianza intramontabile dell’uomo in dialogo, ripenso all’uomo sapiente descritto da Ambrogio. E  più d’una domanda mi colpisce e inquieta: “È ancora possibile un dialogo?”, anzi: “È ancora possibile il dialogo?”, non un dialogo qualsiasi, ma il dialogo. E ancora: “Quanto siamo oggi disponibili a dialogare o almeno a considerare il dialogo uno strumento importante per il nostro vivere personale e sociale?”.

 

È possibile, oggi, dialogare a Milano?

 

Guardando alla nostra amata Città mi si ripropongono domande analoghe: “Sappiamo dialogare a Milano?”, “Crediamo nel dialogo, insostituibile atteggiamento per abitare insieme, tutti, a pieno titolo, la nostra Città?”, “Quanto, dunque, ciascuno di noi è disponibile al dialogo?”.

Osservando la nostra Città, incontrandola nei suoi quartieri, nelle sue parrocchie, nelle sue associazioni, nelle sue espressioni di impegno sociale e civile, visitandola nei luoghi dell’educazione e della sofferenza, ne ricavo sempre di più l’immagine di una grande città fatta da tante piccole isole, spesso non comunicanti tra di loro.

Le periferie distanti dal centro (e non solo spazialmente), le istituzioni percepite come lontane dai cittadini, i giovani che rischiano di essere separati dagli adulti, i “nuovi venuti” non in piena comunicazione con chi è milanese da più tempo, chi ha un lavoro sicuro e ben remunerato disattento a chi è precario o disoccupato, chi ha una casa da abitare con la propria famiglia ignaro del grave disagio di chi non riesce ad ottenerla, chi è sano e a volte è insensibile rispetto a chi vive il dramma della malattia…

Anche la stessa “nuova” toponomastica sembra suggerire, al di là della necessaria e ordinata organizzazione delle funzioni urbane, questa divisione: la città della moda, la città della salute, la città dei servizi, la città della fiera, quella della tecnologia, i nuovi quartieri “esclusivi” ben isolati e protetti dai confinanti.

Quante fatiche subisce il dialogo nella nostra Milano!

 

Il mistero della reciprocità

 

A quali condizioni il dialogo è possibile?

Il dialogo autentico esige come condizione fondamentale l’attenzione all’altro, la propensione ad ascoltarlo e perfino a comprenderlo, anche quando non se ne condividono le vedute.

Si tratta di un esercizio ascetico vero e proprio, che ha bisogno di pratica continua e di verifiche costanti, di un’umiltà grande per ricominciare ogni volta da capo.

Non è semplice dialogare. Non è facile. Mette in gioco tutto di noi stessi: l’identità, la storia, la persona. La relazione nel dialogo non può essere generica: ha bisogno di un “tu”, ma anche di un “io”, di una persona che, non avendo paura dell’altro, si lascia coinvolgere in questa affascinante esperienza che rende unico e contraddistingue l’essere umano dal resto del creato. Il libro biblico di Genesi, al suo inizio, mostra come Adamo diventi pienamente uomo quando può entrare in dialogo con Eva, suo simile, e con Dio, il Creatore: l’uomo è costitutivamente un essere-in-dialogo[5].

Il dialogo ci immette nel mistero della reciprocità, nel mistero della prossimità umana e cristiana. Ciascuno, dialogando, mostra il proprio volto più autentico.

Ma quanto siamo disponibili a lasciarci coinvolgere in questo mistero, ad affrontare la sfida della prossimità, quel “farci prossimo” all’altro – sconosciuto e ferito – come il buon samaritano?[6].

Ci è chiesto un cammino personale. L’uomo infatti – pur avendone in sé dei tratti innati - a dialogare impara. Impara cioè a comprendere l’altro. E comprendere esige una disponibilità iniziale che ci fa lasciare alle spalle ogni egoismo ed ogni individualismo, anche i più nascosti ed i più sconosciuti. È necessario un cammino interiore progressivo, deciso e ordinato.

 

La virtù della comprensione

 

Per il dialogo è richiesta in particolare la virtù della comprensione, virtù negletta nell’era in cui sembra trionfare ogni genere di egoismo.

Scrive Romano Guardini:

 

«L’inizio di ogni comprensione sta nel fatto che uno consenta all’altro la libertà d’essere quello che è; che non lo consideri con l’occhio dell’egoismo prescrivendogli dalla prospettiva del proprio interesse ciò che ha da essere, ma con l’occhio della libertà, la quale dice anzitutto: Sii quello che sei; e solo dopo: Ed ora vorrei sapere come sei e perché. Ogni comprensione [...] presuppone che si consenta all’altro il suo diritto a sé medesimo: che non lo si guardi come un elemento del proprio ambito vitale, di cui ci si serve, ma come un essere che possiede un centro originario, un suo ordine di vita, desideri e diritti propri»[7].

 

Per iniziare il dialogo occorre riconoscere e rispettare la libertà dell’altro, consentirgli di essere se stesso, senza imposizioni e pretese. Non è dialogo quello che costringe e riduce l’altro ad essere come lo vorremmo, a nostra immagine e somiglianza: è invece da scoprire sempre nella sua irripetibile unicità. Ad immagine e somiglianza di Dio, ci porta ad affermare la fede cristiana. Solo l’occhio della libertà riconosce la persona, la sua unicità. Solo così può cominciare il dialogo.

Ogni volta che le nostre azioni, i nostri appelli, i nostri provvedimenti (parlo come pastore, ma so di interloquire con amministratori, educatori, genitori…) lasciano trasparire solo la domanda “Perché fai questo?”, inchiodando l’altro al suo gesto, fosse anche al suo errore, in realtà - prima di riconoscerlo come persona nella sua unicità e irripetibilità – non lo stiamo forse riducendo alla nostra misura?

La domanda sul “perché” è legittima e necessaria, ma non può essere così “rapida” da schiacciare la persona e la sua libertà: il dialogo esige anche tempo, quel tempo che è sempre più scarso, pressati come siamo da mille cose e mille impegni. Ma concederci più tempo ci aiuterebbe a metterci di fronte a noi stessi, a guardarci dentro, a fare chiarezza, a scorgere le nostre debolezze e ad assumerci le nostre responsabilità!

Solo a queste condizioni il dialogo diventa possibile. Ovviamente ciò che vale per i singoli, vale anche, se pure con modalità differenti, per le diverse componenti sociali, per le diverse generazioni, per le parti politiche, per i popoli, i laici e i credenti, le diverse razze, nelle istituzioni, dentro la Chiesa…

Nella comprensione dell’altro e riconoscendo la sua libertà, non ci sarà mai la pretesa dell’asservimento al proprio punto di vista, ma l’incontro cordiale e attento, che cerca di comprendere le ragioni dell’altro anche quando non si condividono. Un simile incontro è l’occasione opportuna per testimoniare con rispetto[8] i propri valori  e per costruire tutti insieme la Città che tutti vogliamo, una Città sempre più a misura d’uomo.

 

La Città chiamata all’incontro delle genti e delle culture

 

Intraprendiamo insieme, con determinazione, il cammino del dialogo. Lo ritengo urgente: la nostra Città ne ha un bisogno profondo, forse mai come oggi.         

Solo in un clima di dialogo autentico e vero, non con gli slogan e con i proclami estemporanei, potremo rinnovare la Città e iniziare così la costruzione della Milano del futuro.

Nel dialogo e nell’incontro la Città mostrerà il suo volto più vero, più amabile e, in definitiva, il suo volto autentico. È una Città, la nostra, da sempre chiamata all’incontro delle genti e all’incontro delle Città: in questo si giocherà la sua identità e metterà in evidenza la sua anima. È una Città che non può mancare un appuntamento così importante e che può dare molto nell’incontro con le culture e le genti. Milano è un crocevia naturale, sede di incontro, di scambio tra persone e culture e tradizioni diverse: e questa naturalità nei secoli si è saldata con l’identità cittadina.

Ma una città che assume come proprio tratto sintetico, distintivo, il volto del dialogo, non corre il rischio di divenire un luogo senza identità precisa?

No, sono fermamente convinto che il dialogo rafforza l’identità, la arricchisce, la rinnova, la proietta verso il futuro. La paura di indebolire o di perdere, nel dialogo, la nostra identità non è forse segno di una identità già  indebolita, se non addirittura estenuata, all’insegna del “Tutto è eguale. Tutto è relativo”? Siamo stati disposti ad un percorso debole nella storia occidentale, perché abbiamo ritenuto che questo ci permettesse di vivere meglio, più comodamente, senza problemi di confronto, consentendoci individualismo e separazione, lasciando ad ognuno di vivere il proprio fondamentale egoismo.

Adesso però la sfida, anzitutto culturale, portata alle nostre Città dai popoli e dalle genti che domandano cittadinanza ci provoca a questo inevitabile confronto. È venuto il tempo, ed è questo, di rinnovare e accrescere la disponibilità all’incontro e al dialogo, per scoprire e ricordarci “chi” veramente siamo.

Ci vuole coraggio. Abbiamo bisogno di donne e uomini desiderosi, animati, anzi appassionati del dialogo autentico.

 

Le voci già in dialogo

 

Ma l’opera che abbiamo definito urgente, quella cioè della costruzione di una Città che sa dialogare, non inizia da zero.

Tante positive esperienze di dialogo sono già in atto. Esperienze a volte piccole, che non hanno l’onore della cronaca ma che, se si scruta con attenzione, possono essere  riconosciute e mostrate. Sono segni incoraggianti, da leggere: c’è già chi tra noi crede, vuole e pratica il dialogo.

Non è questa la sede per elencare tutte queste esperienze. Mi limiterò a citarne alcune con le quali, da vescovo della Chiesa ambrosiana, ho maggiore familiarità.

 

Penso, ad esempio, al dialogo con le persone più bisognose di relazione, anzitutto gli anziani. Per loro la solitudine, la mancanza di dialogo è una povertà grande che nella nostra Milano coinvolge una percentuale considerevole di popolazione. Ma tanti cittadini, tante associazioni (sia laiche sia espressione del volontariato cattolico), alcuni servizi pubblici sono già attivi per entrare in dialogo con loro e assicurare una presenza amica.

 

Lo stesso si può dire a proposito di coloro che vengono da paesi lontani. Troppe volte, e con troppa insistenza, negli ultimi tempi si è pensato allo straniero soltanto come ad una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere. Pregiudizi e stereotipi che hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, causando spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza.

Ma noncuranti delle tante, troppe, eccessive polemiche dei mesi scorsi, molte persone, in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario, hanno operato per assistere questi nuovi venuti nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo, degli indumenti, la cura dei più piccoli. Penso alla Caritas e alle sue molteplici emanazioni, alla Casa della Carità, a quegli interventi delle amministrazioni locali che hanno saputo distinguersi per intelligenza, vivo senso umanitario, creatività. Penso al buon cuore anche di tanti semplici cittadini e ai loro piccoli ma sinceri gesti di aiuto.

Tutto ciò è segno di un dialogo già in atto. Un dialogo forse ancora troppo flebile, da incoraggiare e sostenere, ma che dice del riconoscimento della comune condizione umana cui tutti, italiani e stranieri di qualsiasi etnia, apparteniamo. Il dialogo franco e sincero, la vicinanza paziente favoriranno l’inserimento degli immigrati nel tessuto delle città, contrastando così il rischio che cadano vittima dell’illegalità.

Questi segni positivi e carichi di speranza domandano però di essere preceduti, accompagnati e sostenuti da un approccio culturale nuovo nei confronti degli immigrati, così che gli interventi nei loro confronti non si risolvano con la delega a chi si occupa di assistenza e non siano motivati solo da provvedimenti d’emergenza. Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l’originalità della propria identità.

La persona non si definisce però solo per un insieme di diritti e di doveri, ma per un quadro di valori, uno stile di vita, una visione del mondo, una religiosità: in una parola, per una “cultura”. In tal senso dialogare con gli immigrati significa entrare in contatto con la loro cultura, conoscerla, apprezzarla, valorizzarla perché essi, a loro volta, conoscano, apprezzino e valorizzino la nostra cultura, il nostro modo di vedere e di vivere. Certo, occorre tempo, tanto tempo; occorre pazienza, apertura, passione, desiderio di dialogare per crescere insieme e approdare ad una nuova sintesi culturale che caratterizzerà la Milano di domani: una Milano dei milanesi da generazioni (ma sono pochi perché gli attuali milanesi vengono da ogni parte d’Italia…) e dei “nuovi” milanesi. Per il suo alto valore simbolico più che per la rilevanza numerica desidero qui ricordare l’iniziativa delle visite guidate in Duomo destinate agli stranieri che vivono in città: e così il nostro Duomo – ne sono certo – diventerà a poco a poco anche la loro casa, il simbolo in cui identificarsi, il loro orgoglio.

 

Non posso poi non citare la felice esperienza del Consiglio delle Chiese Cristiane, nato nella nostra città dieci anni fa, per iniziativa di alcune Chiese e progressivamente accresciuto fino ad abbracciare oggi 18 confessioni cristiane. Tante le iniziative comuni realizzate insieme in questi anni ed è significativo che lo scorso 15 novembre in Duomo, in occasione della solenne messa vigiliare per l’entrata in vigore del nuovo Lezionario ambrosiano, i rappresentanti delle Chiese Cristiane fossero presenti a questo evento storico della Chiesa Cattolica.

 

Anche con i fedeli dell’Islam è possibile dialogare. Spesso si dice: “L’Islam disprezza le altre religioni ed i loro credenti, non ha il senso dello Stato tipico della tradizione occidentale, non accetta il principio della laicità, è fanatico, strumentalizza la fede per finalità distorte o criminose, non usa la ragione come mezzo nel confronto e nella discussione con i popoli, schiavizza le donne…”.

Sì, ma intanto cominciamo questo dialogo, anzitutto culturale. Cominciamo a discuterne con i credenti dell’Islam, cominciamo a capire se tutto questo è vero o, almeno, se è vero per tutti. Singoli gesti e atteggiamenti, per quanto gravi e da deprecare con forza, non siano occasione per guardare con sospetto ed accusare tutti gli appartenenti ad una religione. Per questo è significativo che in occasione della visita natalizia delle case, i sacerdoti e i laici offrano agli islamici – quale segno di disponibilità al dialogo - una lettera di saluto.

Qualcuno potrà obiettare che per un vero dialogo occorre una disponibilità reciproca. Ma è pur necessario che almeno uno inizi, cerchi l’incontro, stabilisca una relazione. Ci vogliono pazienza, fiducia, onestà intellettuale, rispetto della libertà dell’altro, capacità di ascolto. E lasciare che il tempo faccia crescere quanto di buono è stato seminato.

 

 

3. ALLA RICERCA DI UN VOLTO

 

Del dialogo c’è urgente bisogno e, nello stesso tempo, segni più o meno evidenti di dialogo sono già in atto. È una contraddizione? Quale allora il volto vero della nostra Città?

 

Il volto della Città

 

Una risposta potrebbe essere questa: la Città è fatta, costruita, vivificata dai suoi abitanti e il suo volto è esattamente quello di chi la abita. Il volto della Città però non va confuso con la rappresentazione di alcuni tratti, di alcune evidenze: manifestazioni culturali, ardite realizzazioni architettoniche, eccellenze scolastiche e imprenditoriali, i quartieri esclusivi.

Queste sono solo delle “figurazioni” della nostra Città, delle singole fotografie di lineamenti più appariscenti. Ma il volto non è solo questione di apparenza, il volto sa dire della profondità dell’io, del cuore, dell’anima.

Il volto della nostra Città coincide quindi con quello delle persone che la abitano, con le loro bellezze e le loro bruttezze, le loro fragilità e le loro ricchezze, le loro preoccupazioni e speranze.

A volte sembra che questi volti generino un affastellamento casuale, informe, senza coesione: una composizione astratta, dove i tratti distintivi sono sparsi sulla tela in modo disordinato. La negazione stessa di ogni figura. Ma occorre leggere il segno oltre ogni esteriorità, in profondità. La realtà non è solo ciò che si vede. La verità delle persone e delle esperienze ha sempre un “oltre”.

La Città ha il volto dei suoi abitanti. È quindi la composizione di cittadini di antica data e di nuovi venuti, più o meno accettati. Cittadini benestanti e cittadini da poco caduti in condizioni di nuova povertà; cittadini che compiono con abnegazione il proprio dovere, che si occupano con dedizione dei più deboli; cittadini che pensano solo ai propri interessi e a volte li realizzano a danno degli altri.

La Città, ancora, ha il volto di chi progetta il futuro e spera con tutto il cuore che possa divenire migliore; di chi semina paura con azioni malvagie e delittuose; di chi procura e diffonde visioni esageratamente negative. Ha il volto di chi è sul limitare ultimo della vita; di chi è solo; di chi studia e vorrebbe una scuola migliore; di chi è espulso dal mondo del lavoro e non riesce più a rientrarvi; di chi vive come può, di espedienti e di qualche bugia o di qualche mezza verità…

Riusciamo a cogliere in queste molteplici esperienze l’unico volto della nostra Città? È questa la nostra Città, non è un’altra, non è quella perfetta che tutti – ciascuno però a proprio modo – utopicamente vorremmo.

Amiamo, prendiamoci cura, serviamo questo volto concreto della nostra Città!

 

Il volto sfigurato

 

Occorre passare quindi dalla “figurazione” alla “trasfigurazione”. Quest’ultimo è un termine caro ai cristiani, perché rimanda immediatamente al volto del Cristo. Il volto trasfigurato di Gesù sul monte Tabor prepara i discepoli a riconoscere nello stesso volto del Crocifisso - questa volta sfigurato - lo stesso Salvatore. La vicenda del Cristo ci insegna che anche il volto sfigurato può essere riconosciuto ed accolto, se amato.

Scrive Paolo VI, già Arcivescovo di Milano, del quale ricordiamo quest’anno il trentesimo anniversario della morte:

 

«La faccia di Cristo e quella della sua religione ci appare talvolta misera e miserabile, lo specchio dell’infermità e della deformità umana. Ci sembra macchiata, profanata, inetta a irradiare ciò che piace tanto al gusto della gente di oggi: la bellezza sensibile, l’espressione formale, l’apparenza gioiosa. Ci sembra, da un lato, priva di luce sua, non più bella e splendente delle luci artificiali […]; dall’altro, ci sembra privata della luce sua da chi dovrebbe farla risplendere e tenerla alta e consolatrice sulla scena umana. Cioè Cristo e la sua Chiesa sembrano non aver alcuna attrattiva per noi, alcun segreto con cui affascinarci e salvarci».[9]

 

Ma accanto al mistero, incomprensibile per la ragione umana, del volto sfigurato, ce n’è un altro, forse ancora più incomprensibile ed accettabile solo alla luce della fede: c’è il mistero della Trasfigurazione. È il mistero che sostiene la speranza cristiana, che la orienta e le offre l’indicazione precisa di andare oltre le apparenze, che le mostra una verità ben al di là del semplice sguardo umano.

Il credente - oserei dire - è, o dovrebbe essere, uno che “si intende bene” di ciò che sfigura un volto, ma, allo stesso tempo, è anche uno che sa, o dovrebbe sapere, andare oltre le apparenze, alla ricerca, nel silenzio interiore, del volto della Trasfigurazione.

Persino la Chiesa, a volte, per usare le parole forti di Paolo VI, ci mostra il suo volto più misero e miserabile. Ma i credenti devono andare oltre, alla ricerca del vero Volto, devono diventare protagonisti della riscoperta del volto trasfigurato di Cristo, devono essi stessi “diventare” quella Trasfigurazione!

E qualcosa di analogo possiamo dire di tutti i segni lasciati sul volto della nostra Città - e quindi dei suoi abitanti – dai mali, dalle crisi, dai problemi, dalle incomprensioni, dalle incomunicabilità che la affliggono e la sfigurano. Non sono la parola ultima, la sentenza definitiva!

Ci deve essere posto per la speranza, e tanti segni sono già in atto. Tutti insieme possiamo andare oltre le apparenze – che segnalano comunque sofferenze – e riconoscere nel volto sfigurato la trasfigurazione, il futuro possibile già iniziato.

 

 

4. DALLA CONTRAPPOSIZIONE ALL'INCONTRO

 

Una precisa ferita al volto della nostra Città è quella forte sensazione di contrapposizione che spesso percepisco. Il clima che si respira, nel quale siamo immersi, dal quale siamo condizionati è, appunto, quello dello scontro, non invece dell’incontro, del desiderio e della ricerca di un dialogo libero e attento. Pare di dover dire che siamo gli uni contro gli altri e tutti contro tutti.

 

Ascoltare e comprendere

 

Sembra smarrita la capacità di ascoltare e di comprendere.

Si diffonde sempre più un clima scandalistico che promuove denigrazione e disprezzo: chi vive con sobrietà, viene irriso e additato come portatore di recondite intenzioni di avarizia; se un professionista commette un grave reato, quell’intera categoria di professionisti verrà considerata ugualmente colpevole; se un dipendente pubblico è fannullone, tutti i dipendenti pubblici lo saranno. Un politico è disonesto? Tutti i politici quindi sono disonesti.

E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Sembra quasi che le singole persone, con le rispettive responsabilità, non esistano più.

Questo clima si è ormai insinuato in tutti i rapporti, anche in quelli più delicati, persino tra medici e pazienti, tra insegnanti e studenti, tra amministratori e cittadini, tra sacerdoti e fedeli… Senza fiducia, dentro lo scontro generalizzato e totale, in questa litigiosità rissosa e permanente, tutti ci scopriamo più soli, in un isolamento che preclude ogni possibile incontro, che impedisce ogni possibile dialogo. Ma a chi giova questa contrapposizione permanente?

Seguiamo ancora l’insegnamento di Ambrogio:

 

«Nessuno parli al suo prossimo in modo ingannevole. Sulle nostre labbra c’è un laccio, e spesso ciascuno con i propri discorsi non si spiega, ma si nasconde. La bocca del malevolo è una profonda fossa: grave è la caduta dell’innocenza, ma più grave quella del malvolere. L’innocente, poiché presta fede facilmente, cade presto, ma, una volta caduto, si rialza; il maledico, invece, per le proprie arti precipita là donde non potrà balzar fuori ed uscire. Ponderi dunque ciascuno i propri discorsi senza frode ed inganno»[10].

 

Non dobbiamo lasciare che la divisione, il sospetto, la disistima dell’altro, il disprezzo di lui, ci sovrastino e ci travolgano: non serve a noi, non serve all’altro, non serve alla Città, non serve al futuro dei nostri figli. Non solo non serve, ma ci proietta verso la disgregazione e il vuoto.

Non dobbiamo per forza avere tutti le medesime opinioni. Il frutto maturo del dialogo non è necessariamente la coincidenza delle idee. Il buon dialogo non è infatti mettersi l’uno di fronte all’altro e misurarsi per vedere chi ha ragione e chi ha torto; è piuttosto un mettersi l’uno accanto all’altro, dichiarandosi reciprocamente la volontà di guardare avanti, l’impegno di fare ciascuno la propria parte per il bene comune, la disponibilità anche a modificare il proprio punto di vista. Il dialogo domanda la coerenza del cammino fatto insieme, più che la stabilità della propria posizione.

 

I “luoghi” per il dialogo e l’incontro

 

Perfino con se stessi occorre tornare al dialogo. Non è scontato che ciò avvenga. È uno sforzo che richiede profondità e silenzio, tempo e libertà. Ed esige che si vada realmente alla ricerca di sé.

Se manca questa dimensione interiore, che ultimamente conduce all’incontro con Dio, è impossibile un vero dialogo.

Scrive sant’Ambrogio:

 

«Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, perché il Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell’intimo dell’uomo. Si riposò nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l’uomo dotato di ragione, capace d’imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: O su chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?»[11].

 

La dimensione spirituale, intima, dell’uomo è – secondo sant’Ambrogio - il luogo dove riposa Dio stesso, dove è possibile incontrarlo, entrare in relazione con lui, rispondere alla sua parola e sperimentare il suo amore. E l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, ponendosi in relazione con Dio può conoscere e ritrovare pienamente se stesso. Davvero straordinario e stupendo è l’uomo nella sua identità più radicale: l’uomo è il riposo di Dio,  è colui che lascia che Dio lo cerchi, lo trovi e in pienezza di gioia vi si riposi!

Il dialogo autentico avviene proprio a partire da persone che conoscono se stesse. Non è una possibilità offerta solo alla donna e all’uomo di fede:  anche chi non crede ha bisogno di riscoprire e prendere contatto con quei valori antropologici che hanno fondato e devono continuare a fondare la nostra civiltà:  il desiderio del bene, del giusto, del bello, del vero…

Per custodire, realizzare e promuovere questa interiorità autentica sono necessari tempo e spazi adeguati. I ritmi di vita sempre più accelerati che ci sono imposti, ostacolano la cura dell’interiorità e della dimensione spirituale, minando in radice la qualità del dialogo. Possiamo aiutarci, per quanto di nostra competenza, governando i tempi del lavoro, del commercio, della cultura, dei servizi, anche del divertimento, per rendere più umana, più a misura d’uomo, la vita quotidiana?

In tante zone della Città, inoltre, mancano anche gli spazi fisici e le occasioni concrete per fermarsi a riflettere e a pregare. Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della Città. Ne hanno un bisogno ancora più urgente le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam. Abbiamo bisogno anche di iniziative culturali che favoriscano la riflessione, non di provocazioni che suscitano esclusivamente dibattiti sterili e scalpore ma che non accrescono l’interiorità.

Una Città amica sa offrire questi tempi, questi spazi, queste opportunità, perché da qui prendono forma il dialogo e la relazione, rendendo così possibile una convivenza umana e umanizzante.

 

Una Chiesa che si offre al dialogo

 

Il dialogo è esercizio che riguarda e impegna anche la nostra Chiesa ambrosiana, chiamata a donare la verità che salva: una verità che coincide con l’amore stesso di Dio e con la sua vita, una verità da comunicare con fedeltà limpida e forte, coraggiosa e gioiosa, ma che insieme – proprio per essere attenta alle diverse condizioni concrete delle persone – deve saper proporre con bontà e mitezza. In una parola, una verità annunciata e testimoniata in dialogo.

Giovanni XXIII, eletto papa cinquant’anni fa, così diceva da Patriarca di Venezia a proposito dello stile che la Chiesa deve assumere per stare in dialogo con il mondo:

 

«Sempre la verità, ma dirla e scriverla con rispetto e cortesia. Dirla agli altri, come vorremmo sentircela dire ed in modo da non attentare mai ai sacri diritti della legge divina e umana, dell’innocenza, della giustizia, della pace…»[12].

 

Di Paolo VI vogliamo ricordare la sua prima enciclica Ecclesiam Suam, tutta incentrata sul tema del dialogo. In particolare, circa l’annuncio della verità, leggiamo:

 

«Come deve premunirsi [la Chiesa] dal pericolo d'un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l'esempio dell'Apostolo: Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io salvi?

Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi.

Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. (…)

Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l'esempio e il precetto che Cristo ci lasciò»[13].

 

Come si vede, il dialogo per la Chiesa non è un semplice scambio di opinioni umane, perché nasce e muove dalla verità evangelica che il Signore Gesù le ha affidato affinché sia annunciata con amore a tutti. Una Chiesa, che si radica sull’immutabile fondamento che è Gesù Cristo, non teme di aprirsi al dialogo; anzi, proprio per questo suo radicamento, il dialogo con tutti gli uomini e le donne è per essa grazia e responsabilità, dono e missione, fortuna immensa e dovere gravissimo e irrinunciabile. Così posso leggere nella passione struggente dell’apostolo Paolo l’eco di quella che riempie il cuore della Chiesa: «Guai a me se non annuncio il Vangelo»[14].

Con questi stessi sentimenti, per il mio ministero di Vescovo e a nome della Chiesa ambrosiana, stasera rinnovo alla Città, a tutti - Istituzioni e cittadini – l’impegno a rendere concreto il volto della Chiesa, così come l’ha delineato Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam:

 

«La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio»[15] .

 

Dialoghiamo, serviamo insieme questa Città, per il bene di tutti e di ciascuno. Certo, ognuno per la sua parte, con le sue competenze, nei suoi ambiti. Ma tutti insieme con lo stesso grande desiderio: dialogare per servire sempre meglio questa Città e chi – in ogni modo - la abita.

 

Laddove l’invocazione è urgente

 

Un dialogo tra le diverse Istituzioni è necessario, per udire e riconoscere le voci che già, nella nostra Città, lo invocano, a volte sommessamente, in modo non sempre esplicito.

 

Domandano dialogo anzitutto i giovani. Il loro sogno più grande è l’incontro e il dialogo. E noi dobbiamo accompagnarli sulle strade della speranza e della fiducia, non possiamo tradirli.

Non credo ai luoghi comuni sui giovani di oggi. L’impressione è che spesso vengano accusati e condannati, come categoria, perché – oltre i deprecabili errori commessi da alcuni - non si perdona ai giovani, dentro una società che diventa di giorno in giorno sempre più vecchia, la loro età e dunque la loro diversità e il loro sguardo aperto sul futuro.

Nessuno di noi assolve bullismo, sfrenatezza di vita, alcoolismo, assunzione di droghe. Ma il nostro atto di fiducia, il nostro desiderio di dialogo con le giovani generazioni non può essere offuscato da una condanna aprioristica di tutti i giovani. Tanti di loro studiano, lavorano, si dedicano agli altri, si preparano con serietà al futuro, si divertono in modo sano: e tra loro tanti giovani immigrati.

Ascoltiamoli con speranza e fiducia, dialoghiamo con loro. Guardiamo a loro con gioia.

 

Una parola vorrei dirla poi a proposito della politica e delle Istituzioni: non tanto sul versante interno dei rapporti tra gli addetti ai lavori, quanto sulla frattura che si è aperta tra i cittadini e la politica, tra i cittadini e le Istituzioni. Sinteticamente sembrerebbe di poter dire che i cittadini non comprendano più i politici e le Istituzioni che dovrebbero rappresentarli; e che i politici non comprendano più i cittadini che dovrebbero rappresentare.

I politici sono definiti spesso una casta, termine usato in modo dispregiativo. Certo, non sono ammissibili né i privilegi eccessivi, né le disonestà. Tuttavia è bene non generalizzare: ci sono politici così e politici perbene che lavorano senza ostentazione, con onestà e serietà. Impariamo a distinguere: non è questione di schieramenti, sono chiamate in causa le responsabilità personali!

La politica merita attenzione e fiducia. Ma richiede partecipazione. Essa ha oggi bisogno di “un di più” di presenza. Se è compito della classe politica riavvicinare i cittadini, è compito anche dei cittadini non abbandonare il campo, riaprire una linea di credito alla politica, tornare al dialogo, intenso e appassionato. È difficile, ma necessario. Anche la Chiesa sta facendo la sua parte: ne è testimonianza la presenza qui questa sera dei giovani che stanno frequentando la “Scuola di Formazione sociale e politica” avviata nei mesi scorsi.

Questo ritrovato dialogo riaprirà anche un rapporto di maggior fiducia nelle e per le Istituzioni. La Città non esiste senza le sue Istituzioni. Il Paese intero non esisterebbe, non avrebbe identità e volto senza le sue Istituzioni. Ce lo hanno insegnato i padri costituenti. Mi piace ricordarlo in questo anno sessantesimo della Costituzione Italiana. Il volto della Città è anche il volto delle sue Istituzioni, capaci di instaurare e mantenere un dialogo con i cittadini, al cui servizio sono poste.

 

Infine, parlando di dialogo, come dimenticare i nuovi venuti, i nuovi cittadini, gli immigrati?

Impariamo la virtù della comprensione, consentiamo all’altro di essere se stesso. Non possiamo certo giustificare comportamenti contro la legge, ma non possiamo credere che tutti i comportamenti degli immigrati siano contro la legge o che tutti gli immigrati commettano illegalità.

Dobbiamo chiederci: c’è desiderio di conoscere davvero l’altro senza temere la sua diversità? Conosciamo quale contributo insostituibile gli immigrati, spesso anche i clandestini, offrono quotidianamente alla vita della nostra Città? Senza il loro lavoro Milano si fermerebbe. Abbiamo bisogno di loro! E non solo della loro fatica, ma sopratutto di quella ricchezza che nasce dall’incontro e dal dialogo. La paura non vinca. Il timore è umano, comprensibile, ma per sperimentare il dialogo occorre superare il timore e vivere la prossimità.

 

 

5. IL DIALOGO COSTRUISCE E RENDE FORTE LA CITTÀ

 

Sono convinto che solo il dialogo, inteso come lo abbiamo descritto, costruisca e renda forte la Città. La Città, come ogni convivenza sociale e civile, poggia sulla relazione. La trama di rapporti che animano la Città non può essere solo di tipo mercantile, ma deve diventare un evento in cui ogni interlocutore si mette in gioco con fiducia, si apre all’altro, lo ascolta, gli risponde senza pregiudizi o precomprensioni, senza desiderio di asservire l’altro.

 

La Città si fa nuova

 

È chiaro che dalla qualità del dialogo dipende il volto della Città, il suo essere aperta, accogliente, attenta ai suoi cittadini; ai piccoli, agli anziani, ai malati. Ed è proprio dalla capacità di dialogo (nel senso di “mettersi in relazione”) che è scaturita la storia di questa splendida Città: un dialogo e una possibilità di relazioni favoriti anche dalla posizione geografica, all’incrocio di tante ed importanti vie di comunicazione.

Ed è una storia che va custodita e continuata. Per questo è importante e decisivo che la stessa Città, attraverso le sue Istituzioni, renda possibile e favorisca il dialogo in tutte le sue forme. Non mostri un volto chiuso e inospitale. 

Una Città così sarà continuamente “nuova” nel senso bello ed alto del termine: resa nuova dai mille incontri, dalle mille opportunità, dai mille ascolti, dalle mille accoglienze.

Sappiamo quanto il quaerere semper nova appartenga alla nostra tradizione ambrosiana! E questo poi contagerà in modo benefico tutti gli abitanti di Milano, li renderà ancora più partecipi del cammino e della storia della Città.

 

L’Expo 2015: un’occasione di dialogo e di incontro 

 

Un esercizio opportuno, concreto, carico di futuro, può essere in questo senso l’appuntamento dell’Expo 2015, che rappresenta una vera e propria occasione di dialogo per la Città al suo interno. E non solo: per la Città con il territorio circostante, per la Città con la Regione, l’intero Paese, l’Europa, il mondo.

Da tempo Milano non aveva una simile occasione per ripensarsi, per immaginare, progettare, discutere e realizzare il proprio futuro.

Vorrei tanto che non rischiassimo di sciupare questa opportunità con discussioni su questioni solo economiche, ragionando di affari, legittimi ma pur sempre parziali. Qual è la ricchezza più vera che dovremmo attenderci – noi e gli altri – dall’Expo?

Prendo spunto, ancora una volta, da sant’Ambrogio:

 

«Vuoi costruire una città come si conviene? È meglio il poco col timor di Dio che grandi tesori senza di esso. Le ricchezze dell’uomo devono giovare al riscatto della sua anima, non alla sua rovina. E il tesoro serve al riscatto, se uno ne fa buon uso; e, d’altro canto, è un laccio, se uno non ne sa usare. Che cosa, infatti, rappresenta per l’uomo il proprio denaro se non ciò che serve per un viaggio? Molto denaro è di peso; una quantità moderata, di utilità!»[16].

 

In questo passo Ambrogio ci parla di una città molto particolare, l’anima dell’uomo, ma la sua metafora prende spunto dalla città reale. Ora riflettere seriamente su queste parole in vista dell’Expo non è affatto fuori luogo: le ricchezze, le grandi quantità di denaro che verranno messe in gioco, non siano di rovina alla nostra Città ma strumento per realizzare qualcosa di ben più grande del profitto.

L’appuntamento del 2015 è momento favorevole per ripensare, immaginare, progettare, discutere e realizzare il futuro di Milano e del territorio. È occasione per riflettere sulla Città, sul senso dell’abitare, sulla famiglia e sulle opportunità che possiamo offrirle, sull’idea di scuola, di arte, di architettura. È occasione per incontrare quanti abitano la Città, conoscerli e conoscersi, capirsi e apprezzarsi nella diversità di cultura, fede, etnia, usi e lavoro.

È occasione per riannodare legami, per creare opportunità di lavoro, di conoscenza, di apertura al mondo, di costruzione di un futuro solido. Lo stesso tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” si offre a vaste e importanti riflessioni e iniziative concrete, che peraltro so essere già in parte avviate ad opera di Istituzioni e di Organizzazioni di volontariato in alcuni Paesi del mondo, dove l’emergenza alimentare è più forte e ha conseguenze drammatiche. In questo senso l’Expo è già cominciata: e questo inizio è un segno che fa ben sperare per la crescita culturale e operativa di una solidarietà sempre più ampia. Così come è certamente da apprezzare il fatto che l’Expo non voglia identificarsi con una grande e singola costruzione simbolica ma con la creazione di una “rete mondiale di cooperazione e solidarietà”  per sradicare la fame e la povertà nel pianeta.

E ancora l’Expo è occasione per mostrare un volto che è manifestazione dell’anima e del cuore della Città. E il volto che Milano offrirà in questa esperienza sarà l’espressione del volto dei suoi protagonisti, dei soggetti coinvolti. Tutte le espressioni della Città, allora, ne siano parte: la cultura e l’arte, la ricerca scientifica e tecnologica, l’imprenditoria e il mondo del lavoro, la medicina e i servizi alla salute, l’associazionismo e il volontariato, la scuola e le realtà educative, la Chiesa.

Sì, anche la Chiesa ambrosiana. E con essa tutte le Chiese e le religioni presenti a Milano.

E si sappia dialogare anche con il territorio, con le periferie, con le province che fanno corona a Milano e compongono la Regione. Tante ricchezze già presenti chiedono solo di poter essere espresse.

Dialoghiamo, per realizzare al meglio l’Expo 2015, per una Milano che sia non solo meta d’arrivo di genti e di popoli della terra, ma anche punto di partenza di idee e di risorse per una solidarietà verso i Paesi più poveri del mondo. In particolare, tutti insieme e ciascuno nel proprio piccolo mondo, dialoghiamo - con franchezza - per il vero bene della nostra Città e di chi la abita.

 

 

Preghiamo per la Città

 

La mia preghiera non può mai mancare; è continua per questa Città. Ma, come sempre, mi sembra bello e giusto che il Vescovo concluda il suo discorso con una preghiera speciale: per questa nostra Città e sulla nostra Città.

 

Signore,
rendici uomini di pace,

sempre.

In mezzo alle guerre dichiarate dai potenti,

ma, più semplicemente,

in mezzo alle nostre piccole guerre quotidiane.

 

Signore,

facci convinti del dialogo,

uomini e donne capaci di dialogo;

aiutaci a cercare l’altro;

aiutaci a trovare l’altro.

 

Signore,

la pace si costruisce

ogni giorno

e per tutti i giorni.

Guidaci sulla strada

della comprensione reciproca,

dell’ascolto vicendevole,

dell’incontro attento e gioioso.

 

Signore,

donaci relazioni e affetti,

dove noi sappiamo

rispettare la libertà dell’altro;

dove noi lo lasciamo

semplicemente

essere se stesso.

 

Signore,

guidaci

dal mistero del Volto sfigurato

al mistero della Trasfigurazione.

Donaci la capacità

di annunciare la Trasfigurazione

e di non trattenerla

egoisticamente

per noi.

 

Signore,

accompagnaci dalla contrapposizione

all’incontro;

dal mutismo

al dialogo;

dall’egoismo

al farci prossimo.

 

Signore,

fa’ che sappiamo

accettare la nostra unicità;

fa’ che sappiamo

fare silenzio

attorno  a noi;

fa’ che sappiamo

trovarci

e trovarti.

 

Signore,

fa’ che sappiamo

essere costruttori di dialogo

nella nostra Città;

capaci di costruire

istituzioni aperte e accoglienti.

 

Signore,

donaci il coraggio e la forza

di andare incontro ai fratelli

che credono in un altro Dio;

Signore,

donaci il coraggio e la forza

di stabilire

un dialogo con loro;

Signore,

donaci il coraggio e la forza

di considerarli fratelli amati

e di condividere con loro

il superfluo

ed il necessario.

 

Signore,

infine, concedici

di saper distinguere,

di saper vedere,

di non fare sempre di ogni erba un fascio.

 

Signore,

rendici uomini veri e donne vere,

che sanno

capire,

amare,

sostenere,

indicare il futuro e la speranza.

 

E fa’ che

la nostra Città sia abitata

da uomini e donne così

e che possa mostrare

a quanti sono venuti

e a quanti verranno

il suo volto migliore,

la sua anima intensa,

il suo cuore.

 

E così sia.

 

 


[1] Siracide 27,11.

[2] Lettera a Simpliciano, 7, 5.

[3] De officiis, Lib. II, cap. 9, 48.

[4] Lettere fuori collezione, 14, 43-45.

[5] Cfr. Genesi 2,18ss

[6] Cfr. Luca 10, 29-37.

[7] R. Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia 19802, p. 140.

[8] Cfr. 1 Pietro 3,15-16.

[9] Paolo VI, Discorso agli addetti all’Azienda statale dei telefoni, 23 febbraio 1964.

[10] Lettera a Costanzo, 36, 13.

[11] Esamerone, VI, 10, 75.

[12] Card. Angelo Giuseppe Roncalli, 29 gennaio 1956.

[13] Paolo VI, Enciclica Ecclesiam Suam, III, n. 6.

[14] 1 Corinzi 9,16.

[15] Paolo VI, Enciclica Ecclesiam Suam, III, n. 3.

[16] Lettera a Costanzo, 36, 11.


 

 

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